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Diana, la tragedia della libertà

Lo scrittore Luca Doninelli rilegge, per VITA, la morte della bambina milanese, lasciata sola, per giorni, dalla madre. "Poteva abbandonarla in un ospedale", dice, "poteva cercare di darla in affido o in adozione. Già altre volte Diana era stata abbandonata, dunque l'azione che ha condotto la piccina a morire era un'azione già compiuta. Questa donna poteva 'liberarsi' della piccola, e non l'ha fatto, perché non ne era capace, perché quel rapporto era la sua prigione"

di Luca Doninelli

Tremano le dita quando si prova a scrivere di questi fatti. Non per l'indignazione ipocrita, non per la rabbia cieca. La storia di Diana e di sua madre non si può giudicare, a giudicare ci penserà Dio. I fatti, o meglio, la cornice dei fatti, quella la conosciamo e alzi la mano chi non vorrebbe non averla mai conosciuta. E non è la prima volta che succede, e non sarà l'ultima.

Quattro mesi fa sono diventato nonno di una bellissima bambina. Il primo pensiero è corso al suo nasino, alle sue guance, al suo sorriso, ai suoi occhi. E ai suoi genitori, tutti pronti, con l'ingenuità dei genitori giovani, ad accorrere a ogni lamento della piccolina. È nata fortunata, la mia nipotina, e io prego perché un po' di questa fortuna non le manchi mai.

Ci vuole fortuna perché quando si viene al mondo non c'è niente di scontato. Nemmeno l'amore della mamma. Lo dice perfino un salmo: "Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato…". Con le parole di un altro salmo, Gesù lascia la vita sulla croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"

Diana ha patito questo abbandono, lo stesso che patì Gesù Cristo. Lo stesso. Impossibile immedesimarsi nei minuti e nei secondi che, succedendosi negli infiniti giorni della sua agonia – perché anche un secondo è infinito – la condussero al compimento della sua brevissima vita. Quali pensieri. Quale angoscia. Quali pianti. Fin là, fino a nessun pianto, fino a nessuna angoscia, fino agli istanti vuoti della resa nelle mani di Dio.

In questo vuoto, che precede la morte senza più grida o lamenti, si specchia un altro vuoto: di senso. La madre parla, spiega che Diana le toglieva la libertà. Il nulla. Mettersi a discutere sul senso della libertà sarebbe, qui, altrettanto vuoto, fasullo. La madre potrebbe dire qualunque altra cosa, è lo stesso. Ma trovo normale, anzi quasi necessario che adoperi la parola meno opportuna, l'ultima da pronunciare di tutto il vocabolario: libertà. Quella libertà che non c'è mai stata. Non per colpa di qualcuno, ma perché far esistere la libertà, metterla al mondo, è un'impresa da non dare per scontata.

Colpisce il fatto che questa donna, di cui per rispetto non voglio fare il nome, non abbia trovato soluzioni per il suo rapporto con la piccola Diana. Poteva abbandonarla in un ospedale, poteva cercare di darla in affido o in adozione. Un tempo tante mamme che per povertà o altro non potevano o non volevano tenersi i figli li depositavano alle porte dei conventi, degli orfanotrofi. Già altre volte Diana era stata abbandonata, dunque l'azione che ha condotto la piccina a morire era un'azione già compiuta. Questa donna poteva liberarsi della piccola, e non l'ha fatto, perché non ne era capace, perché quel rapporto era la sua prigione. E lei aveva bisogno di questa prigione, di questo rapporto, dove probabilmente si condensava tutto il suo odio (prima di tutto, immagino, l'odio per il papà della piccola Diana).



Resta il fatto che l'uso folle di quella parola, "libertà", tocca un punto sul quale è difficile non sentirci tutti gravemente responsabili. Mettere al mondo un bambino non significa essere pronti ad amarlo. Questo lo sanno tutte le mamme del mondo, anche le più amorose e dedite

Luca Doninelli

Ma sono supposizioni. Resta il fatto che l'uso folle di quella parola, "libertà", tocca un punto sul quale è difficile non sentirci tutti gravemente responsabili. Mettere al mondo un bambino non significa essere pronti ad amarlo. Questo lo sanno tutte le mamme del mondo, anche le più amorose e dedite. Quel corpicino che esce da te, quello sconosciuto che adesso ti trovi davanti e che è cresciuto – estraneo – dentro di te per nove mesi, adesso chiede tutto: vuole essere nutrito, vestito, pulito, cullato: vuole essere amato. Non è una cosa scontata: come si fa ad amare se non si è liberi di farlo?

Far crescere un po' di libertà. A cosa serve una società, una compagine umana (anche politica, anche religiosa) di qualunque tipo se non a questo? A cosa servo io, se non a questo? Non parlo dei massimi sistemi, parlo di un mondo in cui, se vuoi disfarti del tuo bambino, hai la libertà sufficiente per darlo a qualcun altro. Nel caso di Diana non c'è stato nemmeno questo: solo una infinita serie di schiavitù, di stordimento, di dimenticanza.

Dobbiamo riflettere su questa fastidiosa verità: che ogni giorno diventiamo sempre un po' meno liberi, che quello che anni fa era possibile ora lo è meno, e che chi si occupa di queste emergenze ha sempre più difficoltà a operare in un mondo che sembra rifiutarle, ogni giorno di più.

Per Diana sono più tranquillo.

La foto di apertura è di Kinga Lopatin per Unsplash

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