Welfare

Quando ho detto basta al cellulare aziendale

Paola ha 48 anni ed è un'educatrice che lavora con mamme in semi-autonomia. «Avevo un cellulare del lavoro, ma non posso pensare che se alle 18,30 spengo il telefono e qualcuno ha bisogno non mi trova più. Adesso ho soltanto un numero, quello personale, le mamme mi chiamano in qualsiasi momento, per loro è sempre tutto urgente. Ma non cambierei mai». Continua il racconto del #LavoroSociale

di Sara De Carli

«Avevo il telefono del lavoro, ma lo tenevo sempre acceso. Per come sono fatta io, non posso pensare che se alle 18,30 spengo il cellulare e poi qualcuno ha bisogno non mi trova più. Adesso ho cellulare soltanto, quello personale, tutti hanno il mio numero… e così tutti mi chiamano in qualsiasi momento, anche la sera e la domenica… Loro non capiscono che ci sono emergenze e cose che potrebbero tranquillamente dirmi domani mattina, per loro tutto è urgente. Ma non riesco vivere questo lavoro se non così, in maniera totalizzante». Paola ha 48 anni e racconta così il suo lavoro di educatrice. «Vado a casa e mi porto dietro tutta la giornata, ripenso a perché ho detto quella cosa a quella mamma, se avrei potuto usare parole diverse, scavo sul perché lei mi abbia risposto in quel modo. Non riesco a chiudere. È un lavoro molto faticoso, di testa e di pancia, ti deve piacere. Richiede tanti sacrifici e forse dovrei anche imparare a mettere qualche filtro in più… Incontro donne con un vissuto difficilissimo, storie che quando le leggi per la prima volta piangi… Ma non lo cambierei mai».

Paola è un’educatrice, lavora per una fondazione milanese e oggi affianca le mamme che si sperimentano in percorsi di semiautonomia.Ha una laurea in scienze politiche ed è approdata in comunità per scelta, dopo dieci anni in un nido. Lavorando si è laureata come educatore pedagogico e ora è iscritta alla magistrale per assistente sociale specialistica. Ha un contratto da 38 ore settimanali, per 1.400 euro quando era in comunità che sono saliti a poco meno di 1.600 ora che segue l’area housing. «La vita dell’educatore in comunità è difficile da conciliare con la famiglia: è la comunità che diventa la tua seconda casa e la tua famiglia. Non c’è Natale né Ferragosto, se c’è un evento la domenica ci vai anche se non sei di turno. È complicato per chi ti sta accanto. Da tre anni convivo con una persona, sono stata molto chiara, questo è il mio lavoro: è lui che si è adattato. Sarà un caso, ma su dieci colleghe dai 25 ai 48 anni, nessuna è mamma».


C’è la frustrazione di volere aiutare a tutti i costi queste ragazze e vedere invece che tante volte vai a sbattere contro il muro, che alcune mamme non ce la fanno. Prendersi cura del figlio per alcune donne non va oltre fargli la doccia, dargli da mangiare, vestirlo. Non per cattiveria: alcune hanno tratti psichiatrici, alcune non hanno gli strumenti, in altri casi forse le abbiamo aiutate troppo noi, sbagliando… Quando scrivi una relazione, descrivendo quello che vedi, senti tutta la responsabilità delle tue parole, pur sapendo che l’ultima parola è del giudice. Però sono domande che ti devi fare, anche se ti devastano. Il nostro compito è la tutela del benessere del bambino, per quanto bene possiamo volere alle mamme

Paola, educatrice

Paola racconta il profondo coinvolgimento emotivo che il lavoro di educatore comporta: «Ci sono tante situazioni in cui ho pianto, tante arrabbiature, tante volte in cui dici “cavolo, perché non riesci a capire che questa cosa è per il tuo bene”… C’è la frustrazione di volere aiutare a tutti i costi queste ragazze e vedere invece che tante volte vai a sbattere contro il muro, che alcune mamme non ce la fanno. Ci sono mamme che devono sottostare a un decreto del giudice e per quanto io sia comprensiva, il mio ruolo a un certo punto deve far venire fuori anche questi aspetti, anche se loro a volte pensano che noi siamo le “streghe cattive”. Prendersi cura del figlio per alcune donne non va oltre fargli la doccia, dargli da mangiare, vestirlo. Non per cattiveria: alcune hanno tratti psichiatrici, alcune non hanno gli strumenti, in altri casi forse le abbiamo aiutate troppo noi, sbagliando… Quando ti rendi conto che non ce la fanno, partono tante domande. Quando scrivi una relazione, descrivendo quello che vedi, senti tutta la responsabilità delle tue parole, pur sapendo che l’ultima parola è del giudice. Però sono domande che ti devi fare, anche se ti devastano. Il nostro compito è la tutela del benessere del bambino, per quanto bene possiamo volere alle mamme. Bisogna prendere decisioni difficili, è questo che “ti prosciuga”. Per fortuna non sono decisioni che devo prendere da sola».

Se il lavoro d’équipe è un elemento di forza e una ricchezza del lavoro educativo, sia rispetto alla qualità del lavoro sia come argine per il benessere personale, Paola racconta con onestà che anche con tutte le buone intenzioni del mondo questo non sempre accade: ed è la solitudine, allora, che diventa un peso insopportabile: «Non sto parlando soltanto del Covid», dice Paola. «Io sono stata sola da settembre a marzo con dieci mamme e i loro bambini, con mille fragilità, che ti chiedono di tutto: mi aiuti a prendere appuntamento, mi dai, mi porti, mi dici… Se sei da sola è difficile, è ovvio che a volte in questi mesi ho sbagliato… ma non ho mollato».

Con la storia di Paola proseguiamo il racconto del lavoro sociale avviato con il numero di VITA di maggio, dedicato al "lavoro sociale, lavoro da cambiare". Il numero può essere scaricato a questo link. Nelle correlate, le altre testimonianze.

Photo by Matthew Brodeur on Unsplash

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