Welfare

Il ruolo delle Università per valorizzare il lavoro degli educatori

Prosegue il confronto attorno al problema della mancanza di educatori. Pubblichiamo la lettera che ci inviano tre presidi e direttori di dipartimento delle università lombarde. «In comunità nulla può essere lasciato al caso, è fondamentale e inderogabile una professionalità specifica. Da nessuna facoltà possono uscire “professionisti fatti e finiti”, ma l'Università può dare un contributo a sostegno della valorizzazione del lavoro educativo», scrivono. Ecco come

di D. Simeone, M. Lazzari e C. Palmieri

«Carenza di educatori… le comunità per minori chiudono»: questo il leit motiv di alcuni articoli, post e discussioni che hanno animato stampa e social nelle ultime settimane. Di fronte a questa emergenza, i Dipartimenti di Scienze della Formazione delle Università lombarde che formano educatori socio-pedagogici vogliono esplicitare la loro posizione.

La situazione che stanno vivendo le comunità per bambini e bambine, adolescenti e giovani è complessa e sfaccettata, e la mancanza di educatori non è ascrivibile al numero di laureati che i corsi di laurea in Scienze dell’Educazione formano, superiore al fabbisogno delle comunità. Il turn over degli educatori e il loro difficile reperimento rappresenta invece un problema articolato, che va oltre il caso delle comunità e della tutela minorile. Il sistema dei servizi e delle politiche sociali è regolamentato dalle autorizzazioni al funzionamento e dall’accreditamento, e allo stesso tempo le condizioni di lavoro degli educatori e delle educatrici dipendono dai contratti collettivi nazionali del Terzo settore e dalle politiche di gestione tra enti pubblici e privato sociale.

Ma il lavoro in comunità, soprattutto, è un lavoro straordinariamente delicato e complesso. Le comunità sono, per periodi più o meno lunghi, i contesti di vita di bambini e bambine, ragazzi e ragazze che non possono crescere nelle loro famiglie d’origine. Si trovano in comunità per motivi diversi e sono stati protagonisti, anche se molto piccoli, di situazioni che hanno lasciato in loro segni indelebili. Si trovano in comunità perché lì possono imparare a fare i conti con le loro difficoltà, a sperimentare modalità di vita e di relazione che li rendano capaci di affrontare la vita in maniera autonoma, scoprendo le loro potenzialità. Il lavoro educativo consiste nel creare le condizioni perché questo accada. E ciò comporta che ogni pasto, ogni notte, ogni accompagnamento in bagno o a fare sport diventi una situazione da cui imparare qualcosa su di sé, sul mondo, sugli altri, in vista di un’autonomia possibile. Nessun momento di vita in comunità può essere lasciato al caso, ma deve essere pensato con attenzione; a nulla, in comunità, si può reagire improvvisando o grazie alla buona volontà di chi ci lavora.

Inoltre, il lavoro educativo e pedagogico in comunità non è solo diretto a bambine e bambini in accoglienza: significa lavoro con gli altri servizi del territorio, con le scuole e, in primo luogo, con le famiglie d’origine. Il lavoro educativo e pedagogico, infatti, non finisce fra le mura della comunità, ma consiste anche in una sapiente tessitura di contesti, che promuova relazioni significative e un’integrazione operosa fra i molteplici soggetti e luoghi della socializzazione e dell’educazione, in cui la crescita di ciascuna e di ciascuno prende forma.

È proprio questa complessità a rendere fondamentale e inderogabile una professionalità specifica, che richiede competenze pedagogiche, metodologiche, relazionali, riflessive per consentire a chi educa di agire con consapevolezza.

Per esercitare al meglio queste competenze occorre che ci siano condizioni organizzative ed economiche che consentano agli educatori di lavorare con lucidità: la precarietà dei contratti, una retribuzione non adeguata alla complessità del compito, turni prolungati comprensivi di notti passive spesso non remunerate, incarichi anche assai diversi per comporre un impegno orario pieno, ridottissime possibilità di crescita e di carriera, sono tutti elementi che mettono in difficoltà gli educatori, come del resto metterebbero in difficoltà qualunque lavoratore. E in queste condizioni è facile cercare, e trovare, lavoro altrove (per esempio, nella scuola), con il risultato di un frequente turn over degli educatori nelle comunità, e la conseguente mancanza di continuità educativa, a cui gli ospiti avrebbero diritto.

La complessità del lavoro in comunità rende fondamentale e inderogabile una professionalità specifica. Per esercitare al meglio queste competenze occorre che ci siano condizioni organizzative ed economiche che consentano agli educatori di lavorare con lucidità: la precarietà dei contratti, una retribuzione non adeguata alla complessità del compito, turni prolungati comprensivi di notti passive spesso non remunerate, incarichi anche assai diversi per comporre un impegno orario pieno, ridottissime possibilità di crescita e di carriera, sono tutti elementi che mettono in difficoltà gli educatori, come del resto metterebbero in difficoltà qualunque lavoratore.

Il contributo che le Università possono dare a sostegno della valorizzazione del lavoro educativo si gioca innanzitutto su due punti.

Il primo riguarda la formazione degli educatori socio-pedagogici, orientata a fornire gli strumenti concettuali e metodologici necessari per esercitare la professione. I corsi universitari, e non solo quelli di Scienze dell’Educazione, non hanno la facoltà di laureare “professionisti fatti e finiti”, ma professionisti che si interrogano su come lavorare nei diversi contesti educativi, anche attraverso le esperienze di tirocinio sul campo, individuando modalità di intervento adeguate per ogni situazione, capaci di apprendere dall’esperienza on the job.

Il secondo riguarda il raccordo con il mondo del lavoro per supportare il lavoro educativo. L’Università lavora sulla costruzione dell’identità e della consapevolezza professionale degli studenti di Scienze dell’Educazione e lo può fare alimentando un confronto continuo con i servizi, coinvolgendoli in attività curricolari ma anche sostenendo sperimentazioni educative. Inoltre, mette a disposizione le sue competenze per lavorare insieme ai gestori dei servizi e delle comunità sulla transizione al mondo del lavoro dei neolaureati, supportando percorsi di apprendimento on the job e collaborando alla formazione continua degli educatori.

Infine, l’Università può mettersi a disposizione, come luogo formativo e di cultura, per creare condizioni e un terreno fertile di confronto tra enti gestori, Terzo settore, servizi e studenti, in cui approfondire questioni inerenti il lavoro educativo e l’identità professionale da diversi punti di vista, in maniera libera da ricadute operative immediate ma con un forte impegno nel tenere insieme la riflessività con la pragmaticità, in modo tale da sostenere la ricerca e l’individuazione di strategie di intervento.

Prof. Domenico Simeone, preside della Facoltà di Scienze della Formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore
Prof. Marco Lazzari, direttore del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università di Bergamo
Prof.ssa Cristina Palmieri, direttore del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, Università di Milano – Bicocca

Nessuno ti regala niente, noi sì

Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.