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100 anni fa l’Italia entrava in guerra. E oggi che facciamo?

Cento anni fa, un piccolo gruppo di persone trascinò gli italiani nella carneficina della prima guerra mondiale. Oggi la guerra è vietata ma si può fare senza neanche dichiararla. Che ci piaccia o meno con questa realtà dobbiamo fare i conti. Come? Diffondiamo una riflessione di Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della pace

di Flavio Lotti

Domenica 23 maggio 1915. L'Italia dichiara guerra all'Austria-Ungheria. Lunedì 24 maggio 1915. Le truppe italiane attraversano il fiume Piave. Al confine con il Trentino austriaco parte il primo colpo di cannone italiano. A poche centinaia di chilometri sul confine orientale, nel comune di Drenchia, un proiettile austriaco uccide il primo giovane soldato italiano. Aveva 19 anni e mezzo. Dopo di lui ne moriranno a centinaia di migliaia, come carne al macello, portando il lutto in quasi tutte le famiglie italiane. Dopo 1260 giorni la guerra finì con una vittoria militare ma, tra la povera gente, si continuò a morire di malattie e miseria. Poi venne il fascismo, le guerre in Africa e un'altra guerra mondiale, più grande e devastante della prima.

Dicono gli storici che la decisione di trascinare gli italiani in quella guerra fu il risultato di un «lungo, tormentato, contraddittorio e insieme spregiudicato processo interno al ceto politico, militare ed economico dirigente». Non fu uno scontro tra pacifisti e guerrafondai. La logica del confronto era quella della “convenienza”, “dell'utilità”, “dell'opportunità”, “degli interessi”, della politica di potenza. La paura non era quella della guerra ma di essere «tagliati fuori dalla grande contesa europea e dalla conseguente risistemazione geopolitica globale».

Così, dopo nove mesi di incertezze mascherate dall'iniziale dichiarazione di neutralità, si arriva alla fatidica decisione: è guerra! Un'agguerrita pattuglia di intellettuali interventisti accoglierà entusiasta l'annuncio. Ma dopo il “Maggio radioso” vennero lunghi mesi oscuri, devastanti, orrendi, tristi. E i mesi diventarono anni.

Dopo la guerra, in tanti hanno provato a trasformare quella carneficina in un evento carico di senso positivo, quasi sacro. Trascorso un secolo molte cose sono cambiate ma non il tentativo di legittimare la guerra. Il punto critico resta quello delle finalità. La guerra è una tragedia ma se serve a «fare l'Italia e gli italiani», a «forgiare l'identità nazionale», ad «adempiere al compito sacro di difendere la nazione», allora diventa un evento da celebrare. L'orrore della guerra viene sostituito dall'esperienza della guerra. Le atrocità, le brutalità, le sofferenze lasciano il posto alla rievocazione della gloria, dell'obbedienza, del coraggio, dello spirito di sacrificio. L'obiettivo non è tanto giustificare una strage del passato quando rendere accettabile la possibilità di riviverla oggi.

Cento anni fa la decisione di entrare in guerra venne presa da un piccolo gruppo di persone, il re, il governo, i vertici militari e, infine, il parlamento. Oggi, che la guerra è vietata dal diritto internazionale dei diritti umani e, in Italia, dalla Costituzione, imbracciare le armi è diventato più difficile. Ma non impossibile. Tant'è che dalla fine della guerra fredda siamo stati coinvolti ufficialmente in ben sette altre guerre: due volte in Iraq, in Somalia, Bosnia, Kosovo, Afghanistan e in Libia. Ma i bene-informati sostengono che i nostri soldati sono operativi anche in altri scenari.

Certo oggi non si usa più dichiarare guerra a nessuno. È politicamente scorretto. A meno che non si presenti con il volto impresentabile dei tagliagola. Quando serve, la guerra si fa senza bisogno di dichiararla. Oppure la si occulta, la si commissiona ad altri. E se proprio si deve mobilitare le proprie forze armate basta chiamarla “missione di pace”. A volte si invoca la copertura dell'Onu, ma se non la si ottiene ci si organizza con il fai- da-te delle “coalizioni dei volenterosi”.

Caduto il muro di Berlino qualcuno scrisse che era scoppiata la pace. Altri dissero che la guerra avrebbe avuto un futuro più ampio del passato. Avevano ragione i secondi. Che ci piaccia o meno con questa realtà dobbiamo fare i conti, sempre più spesso, per lungo tempo. E allora quale deve essere il nostro atteggiamento? Ci tiriamo fuori? Ci lasciamo coinvolgere? Calcoliamo il nostro tornaconto? Decidiamo opportunisticamente quando, cosa e come ci conviene come cento anni fa? Oppure pensiamo che il rischio è troppo grande, che il pericolo è troppo esteso, che la situazione è troppo complicata, che la guerra è diventata ingestibile, incontrollabile e dunque inutilizzabile? E ci assumiamo la responsabilità di spegnere gli incendi e fermare le uccisioni?

Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della pace

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