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Giorno della Memoria, rileggiamo Primo Levi
Vita.it per questo 27 gennaio propone una pagina di «Se questo è un uomo».
di Redazione
Levi non nasce come scrittore: da giovane studente non ha vocazione per la letteratura, ma è semmai affascinato dalla chimica, materia in cui si laurea. E alla chimica Levi deve molto: grazie ad essa infatti trova il modo di sopravvivere al coperto nel durissimo inverno di Auschwitz. Ma nel 1946, tornato a casa dopo l’incubo del lager, scrive Se questo è un uomo, che nasce – come informa l’autore stesso nella prefazione – dal «bisogno di raccontare» di quegli anni, da un «impulso immediato e violento» a fornire testimonianza dell’accaduto. Il campo di Auschwitz diventa così per Primo Levi l’osservatorio razionale di quella pericolosa e incomprensibile creatura che è l’essere umano: dopo Auschwitz Levi diventa scrittore.
da Se questo è un uomo
Häftling [detenuto]: ho imparato che io sono uno Häftling. Il mio nome è 174.517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro.
[…] Pare che questa sia l’iniziazione vera e propria: solo “mostrando il numero” si riceve il pane e la zuppa. Sono occorsi vari giorni, e non pochi schiaffi e pugni, perché ci abituassimo a mostrare il numero prontamente, in modo da non intralciare le quotidiane operazioni annonarie di distribuzione; ci son voluti settimane e mesi perché ne apprendessimo il suono in lingua tedesca. E per molti giorni, quando l’abitudine dei giorni liberi mi spinge a cercare l’ora sull’orologio a polso, mi appare invece ironicamente il mio nuovo nome, il numero trapunto in segni azzurrognoli sotto l’epidermide.
[…] L’intero processo di inserimento in questo ordine per noi nuovo avviene in chiave grottesca e sarcastica. Finita l’operazione di tatuaggio, ci hanno chiusi in una baracca dove non c’è nessuno. Le cuccette sono rifatte, ma ci hanno severamente proibito di toccarle e di sedervi sopra: così ci aggiriamo senza scopo per metà della giornata nel breve spazio disponibile, ancora tormentati dalla sete furiosa del viaggio.
[…]Spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una finestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. – Warum? – gli ho chiesto nel mio povero tedesco. – Hier ist kein Warum – (qui non c’è perché), mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone.
La spiegazione è ripugnante ma semplice: in questo luogo è proibito tutto, non già per riposte ragioni, ma perché a tale scopo il campo è stato creato.
Ci mettono ancora una volta in fila, ci conducono in un vasto piazzale che occupa il centro del campo, e ci dispongono meticolosamente inquadrati. Poi non accade più nulla per un’altra ora: sembra che si aspetti qualcuno.
Una fanfara incomincia a suonare, accanto alla porta del campo: suona Rosamunda, la ben nota canzonetta sentimentale, e questo ci appare talmente strano che ci guardiamo l’un l’altro sogghignando; nasce in noi un’ombra di sollievo, forse tutte queste cerimonie non costituiscono che una colossale buffonata di gusto teutonico. Ma la fanfara, finita Rosamunda, continua a suonare altre marce, una dopo l’altra, ed ecco apparire i drappelli dei nostri compagni, che ritornano dal lavoro. Camminano in colonna per cinque: camminano con un’andatura strana, innaturale, dura, come fantocci rigidi fatti solo di ossa: ma camminano seguendo scrupolosamente il tempo della fanfara.
Anche loro si dispongono come noi, secondo un ordine minuzioso, nella vasta piazza; quando l’ultimo drappello è rientrato, ci contano e ci ricontano per più di un’ora, avvengono lunghi controlli che sembrano tutti fare capo a un tale vestito a righe, il quale ne rende conto a un gruppetto di SS in pieno assetto di guerra.
Finalmente (è ormai buio, ma il campo è fortemente illuminato da fanali e riflettori) si sente gridare «Absperre!» [sciogliete le righe!], al che tutte le squadre si disfano in un viavai confuso e turbolento. Adesso non camminano più rigidi e impettiti come prima: ciascuno si trascina con sforzo evidente.
Abbiamo ben presto imparato che gli ospiti del Lager sono distinti in tre categorie: i criminali, i politici e gli ebrei. Tutti sono vestiti a righe, sono tutti Häftlinge, ma i criminali portano accanto al numero, cucito sulla giacca, un triangolo verde; i politici un triangolo rosso; gli ebrei, che costituiscono la grande maggioranza, portano la stella ebraica, rossa e gialla. Le SS ci sono sì, ma poche, e fuori del campo, e si vedono relativamente di rado: i nostri padroni effettivi sono i triangoli verdi, i quali hanno mano libera su di noi, e inoltre quelli fra le due altre categorie che si prestano ad assecondarli: i quali non sono pochi.
Ed altro ancora abbiamo imparato, più o meno rapidamente, a seconda del carattere di ciascuno; a rispondere «Jawohl!» [Sì, bene!], a non fare mai domande, a fingere sempre di avere capito.
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