Volontariato
Ezio Raimondi. Una parola amica degli uomini
Uno dei più grandi critici letterari italiani, alla vigilia dei suoi 80 anni, confessa le speranze che da sempre hanno guidato i suoi studi e le sue letture
BOLOGNA – “Questa è la nostra parte per ridurre il dolore”, colpisce sentire queste parole in uno studio, tra libri polverosi che di primo acchito sembrano non aver nessun rapporto con la realtà. Ma Ezio Raimondi, uno dei massimi critici letterari italiani, è un intellettuale che concepisce il proprio mestiere in rapporto alla vita. Che non concepisce possibile sottrarsi dagli interrogativi che l?attualità pone a lui come a ogni uomo.
Classe 1924, bolognese, Raimondi è oggi presidente dell?Istituto beni culturali dell?Emilia Romagna [www.ibc.regione.emilia-romagna.it]. Con lui si parla di libri ma anche di guerra; di poesia, ma anche di Europa; di letteratura, ma anche di no global. E in compagnia di un ospite speciale: Renato Serra, critico militante che Raimondi ha amato e studiato, e con il quale sembra aver stretto una simbolica fratellanza. Nato a Cesena nel 1884, Serra scomparve nel 1915 nel corso del primo conflitto mondiale. Di quell?esperienza ci ha lasciato però un prezioso Esame di coscienza di un letterato [scaricabile da Liber Liber], ovvero lo scritto di un intellettuale sul fronte di guerra. Così, parafrasando il Serra soldato, ci siamo chiesti: sotto quale pretesto ci si può concedere oggi il lusso di metter da parte tutte le altre cose e di pensare solo alla guerra? Un atteggiamento non estraneo alla maggior parte dell?informazione, monopolizzata nei mesi scorsi dalla guerra in Iraq. Professor Raimondi, che risposta darebbe oggi a questo interrogativo?
Raimondi: Molto in piccolo ricordo cosa mi era successo nel 43 quando anch?io, ragazzino, in occasione dell?8 settembre, mi ero chiesto in un mondo di sofferenza: quale parte posso assumermi della mia sofferenza personale?
Vita: E quale fu la risposta?
Raimondi: La risposta fu che finii quasi soldato, prigioniero in Germania, dicendo che questa era la mia piccola parte, non potendo fare di più. In piccolo accettai qualche cosa che mi portava fuori dall?esistenza normale, non potendo offrire di più. Offrii poco, ma qualche cosa che, come problema, mi ero posto.
Vita: Durante la prima guerra mondiale un?intera generazione di intellettuali rispose alla ?chiamata?, come la definisce lo stesso Serra. È possibile oggi rileggere il suo Esame come la storia di un dialogo fra attualità e riflessione storica verso una parziale sovrapposizione del ruolo dei giornalisti e quello degli intellettuali?
Raimondi: è difficile l?analogia. Tenga però conto che Serra appartiene proprio alla generazione che si pose il problema del giornalista rispetto allo scrittore tradizionale. Ciò che ammirava in altri personaggi, ad esempio in Borgese, era questa capacità di essere mobilitabile nel presente. Ma sentiva anche il pericolo della scrittura giornalistica; era fra quelli che cominciavano a percepire il problema per cui la scrittura, che gioca sulla attualità, deve muovere con uno stile simile a quello dei cartelloni pubblicitari, con il rischio di ridurre la verità a qualcosa di troppo semplice. D?altro canto, se si legge La partenza di un gruppo di soldati per la Libia di Serra, è il pezzo di un grande giornalista.
Vita: Renato Serra, un europeo di provincia, ma anche lei, professore, è conosciuto per essere un convinto europeista?
Raimondi: è una storia molto semplice. Quando nel 45 ci trovammo liberati, io venivo dalla scuola fascista; percepivo a quel punto tutto ciò che si apriva, e che avevamo ignorato. Cominciò una specie di rincorsa, e la prima nozione che mi si rivelò, era quella europea. Paradossalmente poi, quando cominciarono gli inseguimenti nelle biblioteche per trovare quello che non avevamo conosciuto, c?era anche una piccola biblioteca americana dell?Usis (United States Information Service, ndr), dove i libri di critica letteraria, il new criticism e così via, che cominciai a leggere lì, mi riportavano necessariamente all?Europa. Da quel momento sembrò naturale che per parlare delle cose italiane si avesse sempre anche un riferimento più ampio, in cui inverare quello che si diceva «un mondo nazionale non ancora realizzato».
Vita: E oggi, qual è lo stato di salute dell?Europa, soprattutto se messa a confronto con le recenti scelte sulla guerra in Iraq?
Raimondi: Ma l?Europa è insieme tante cose e niente. Le posso rispondere con la sensazione che ho a poco a poco accresciuto facendo il presidente dell?Istituto per i beni culturali dell?Emilia Romagna. Sono arrivato a questo Istituto nel 92. Da allora ho potuto conoscere la regione come non la conoscevo; ho scoperto una ricchezza di cose e qualche volta anche di iniziative, per cui non posso dar torto a Ciampi quando dice, venendo da certe visite, questa è l?Italia. Quello del mondo delle periferie è un mondo attivo, vivo, molto più robusto, molto più solido di quello che percepiamo attraverso le registrazioni quotidiane. Di lì ho cominciato a sentire cos?è una città, una cittadina europea. La storia europea, se non è solo un museo, è la storia che si definisce nel volto delle nostre città, dove sono iscritti in modi diversi a seconda delle tradizioni, gli stili di diverse epoche. Come si potrebbe cancellare, tra romanico e gotico, che sono iscritti in tutte le nostre città, quello che è un apporto orientale che va dal mondo persiano al mondo arabo? Abbiamo assimilato, nel momento stesso in cui abbiamo inventato delle forme e magari le abbiamo trasformate in potere. Rimasi ad esempio colpito quando, leggendo La mente prigioniera di un grande scrittore come Czeslaw Milosz, questo poeta polacco premio Nobel scriveva che Cracovia aveva lo stesso colore di Bologna. Si creava così, al di là di quelli che chiameremo burocraticamente ?gemellaggi?, un rapporto, una relazione: è questo sistema di relazioni che conta.
Vita: Lei però ha anche insegnato a lungo negli Stati Uniti: America ed Europa quindi, due continenti in rotta di collisione?
Raimondi: Tenga conto che per la nostra generazione l?America fu una delle grandi scoperte. Li avevamo sentiti come una civiltà che ci liberava, e quindi è stato sempre in parte un mito. Quando io sono stato in America ho sempre sentito nel mondo universitario questo tipo di presenza, questa dimensione anche generosa: severa, ma generosa. Nel senso che, a differenza della realtà italiana, dove i doveri universitari erano per modo di dire ?scritti?, nel mondo americano la gestione del proprio lavoro accademico era una cosa impegnativa, e quasi sotto controllo, ma non di tipo poliziesco, bensì di un?opinione diffusa e comune. Da qualche anno non ci sono più tornato, ma ho la sensazione che non sia più il mondo di cui si faceva testimone un grande dantista come Charles S. Singleton, il quale mi parlava del suo pianto quando nel campus della John Hopkins University, mi pare le cuoche erano uscite fuori gridando «Hanno ucciso Kennedy!». Quando leggo però certi scrittori americani come Philip Roth, la sua Pastorale americana, o Underworld di Don De Lillo, ho la sensazione che sia ancora quell?America, che non coincide però in questo momento con la sua voce politica, ma che c?è ancora.
Vita: Torniamo, per concludere, a Serra, prezioso testimone di una guerra mondiale: come è possibile oggi comunicare l?orrore delle guerre?
Raimondi: è una domanda complessa. La grande letteratura ci ha insegnato a guardare i mostri in faccia. E ce lo ha insegnato certe volte nel modo più secco, apparentemente sereno. Io continuo a credere, pensando a certi scrittori, che dove c?è sofferenza c?è ingiustizia e che essa va dichiarata. Nella speranza e nel proposito che qualche cosa venga corretto, questa è la nostra parte: ridurre il dolore è una parte certamente dell?uomo, nel momento stesso in cui si riconosce che fa parte della nostra esistenza. La letteratura deve dire la verità, la sua verità; deve occuparsi dell?uomo in quanto uomo, dell?uomo che si rischia di dimenticare, dell?uomo che non ha voce, cui bisogna ridare una voce perché diventi parte della nostra esperienza, ma anche della nostra responsabilità. Le risponderei con una domanda: di che cosa siamo responsabili? E la risposta sta nel porre la domanda e non ignorarla. È una specie di elemento che colpisce se vogliamo usare ancora quella parola, la coscienza, che non fa finta di niente e che non dà per scontato ciò che non è scontato.
Vita: è un atteggiamento non dissimile da quello assunto dai movimenti no global?
Raimondi: è già una risposta di cosa siamo responsabili, non c?è dubbio. Sentirsi solidali, ricavando dall?altro l?indicazione di essere in qualche modo su una strada non ingiusta è una sorta di garanzia. Ma ha naturalmente il suo positivo e il suo negativo. La dimensione del sensazionale può colpire anche ciò che è giusto, profondo e autentico, e in quel caso l?autentico e il profondo deve difendersi da una manifestazione che è in fondo il suo contrario.
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