Medio Oriente
Israeliani e palestinesi, alleati per la pace
L'israeliana Eszter Koranyi e la palestinese Rana Salman, co-direttrici dell’organizzazione pacifista nonviolenta Combatants for Peace, arrivano in Italia per un fitto programma di incontri “La pace è la via”. «Siamo tutti talmente imbevuti di questa idea dell’altro come nemico che non riusciamo neppure a immaginarlo nella sua umanità», dice Salman. Koranyi: «Dobbiamo mantenere viva nella nostra testa l’immaginazione della pace come possibilità concreta»
di Anna Spena
Eszter Koranyi è una donna ebrea. È nata in Ungheria, si è trasferita in Israele e qui ha scelto di restare “per contribuire a rendere questo posto un po’ meno diseguale per tutti”. Rana Salman è una donna palestinese, originaria di Betlemme, in Cisgiordania. Viene da una famiglia rifugiata dalla Nakba del 1948, l’esodo forzato della popolazione araba palestinese, dopo la fondazione dello Stato di Israele. Vogliono entrambe la stessa cosa, lavorano entrambe per lo stesso desiderio: la pace. Oggi sono co-direttrici dell’organizzazione pacifista nonviolenta Combatants for Peace, un movimento fondato nel 2006, dopo la seconda Intifada, da ex militari israeliani ed ex militanti palestinesi. Un movimento che chiede la fine dell’occupazione illegale israeliana e pratica la pace.
Dal 15 al 20 novembre saranno insieme in Italia per con un fitto programma di incontri – “La pace è la via” – che partirà da Milano e le porterà a Torino, Firenze, Roma, Napoli per far conoscere il lavoro della loro associazione (qui l’elenco completo di tutti gli incontri). L’iniziativa è stata promossa dal Festival del cinema dei diritti umani di Napoli insieme all’associazione Multimage, la casa editrice dei diritti umani; Pressenza, un’agenzia stampa internazionale tematica dedicata alla pace, la nonviolenza, la nondiscriminazione e i diritti umani; l’associazione Assopace Palestina e il Centro Studi Sereno Regis di Torino.
Multimage la scorsa estate ha pubblicato un libro, con i contributi di Luisa Morgantini, Ilaria Olimpico, Sergio Sinigaglia, Chen Alon, Sulaiman Khatib, Eszter Koranyi, Rana Salman e a cura di Daniela Bezzi, “Combattenti per la pace – palestinesi e israeliani insieme per la liberazione collettiva”, che racconta com’è nato Combatants for Peace, la sfida che affronta ogni giorno, la quotidiana affermazione di speranza di chi, in una terra martoriata dal conflitto, comincia a parlarsi. E lo fa per «condividere le stesse storie: lutti, traumi, pulsione di vendetta che si riverbera da generazioni, nella consapevolezza che la sola alternativa alla guerra è fare pace», dice la curatrice del volume Daniela Bezzi. «Dopo il sette ottobre», continua, «eravamo tutti sconquassati. Così abbiamo deciso che l’unico modo per compensare questa situazione era quello di diffondere il più possibile storie positive come quella del movimento Combatants for Peace. Quello che vivono Eszter e Rana, così come i tanti che fanno parte del movimento, non è facile: in Cisgiordania il movimento viene visto come un tentativo di smussare le ragioni delle rivendicazioni della causa palestinese, e qui – così come in Israele – chi fa parte di questo movimento viene visto come traditore».
Ma i Combatants for Peace non sono traditori o traditrici. Sono uomini, donne e soprattutto giovani, attivissimi anche nella diaspora israelo-palestinese, che nonostante tutto vanno avanti. E lo fanno, anche in giro, per il mondo con un programma d’iniziative condivise, seminari, eventi di formazione, interventi di auto-aiuto, che potrebbe essere il prototipo di quella società ‘bi-nazionale’ che tutti sognano.
«Viviamo in una realtà in cui i politici o chi per loro cercano di convincerci che la pace è uno stato innaturale per gli essere umani e che dobbiamo essere per sempre in guerra», ha raccontato l’israeliana Eszter Koranyi in un’intervista (qui è possibile rivedere il video) a cura di Ilaria Olimpico per Pressenza e ImaginAction, a cui ha partecipato insieme a Rana Salman. «Non credo sia giusto rinunciare a perseguire la pace. E anzi, particolarmente quando si è in guerra, dobbiamo mantenere viva nella nostra testa l’immaginazione della pace come possibilità concreta, e poiché sappiamo che a un certo punto ci sarà la pace, dobbiamo in tutti i modi possibili contribuire a garantire che la pace sia nell’interesse di tutti, per entrambe le nazioni, per i palestinesi come per gli israeliani e non “qualcosa” che può escludere una parte a favore dell’altra».
E nonostante l’orrore che abbiamo visto nell’ultimo anno: «Anch’io», spiega Rana Salman, «continuo a credere nella possibilità della pace. Ma è importante sottolineare che per un certo periodo abbiamo smesso di utilizzare la parola “pace”, optando per la formula “elaborazione collettiva” come pre-requisito alla pace per entrambe le parti. Il che significa elaborazione delle nostre paure, dei nostri traumi, perché siamo tutti talmente imbevuti di questa idea dell’altro come nemico che non riusciamo neppure a immaginarlo nella sua umanità, anche perché i nostri canali, i nostri media, l’ambiente in cui viviamo continua a rafforzare l’idea che non c’è alternativa, che nessuna pace è possibile, che la sola strada possibile è continuare in questa violenza, distruzione, guerra, ma sappiamo che questo non è vero. Ecco perché continuiamo a sfidare questo status quo, questa narrazione che induce la gente a pensare che non c’è altra strada. Per cui ecco cosa cerchiamo di fare come Combattenti per la Pace: mostrare che esiste un’altra strada. Questo è ciò che sostiene il nostro impegno di non violenza e coraggio nel pensare che sia possibile cambiare la realtà che ci circonda».
Viviamo dentro una polarizzazione. O si sta con i palestinesi o con gli israeliani. Ma la realtà è più complessa di così: «È una delle sfide più impegnative che ci troviamo ad affrontare come movimento congiunto, ma queste accuse di tatbya o di tradimento derivano da una fondamentale incomprensione rispetto a ciò che facciamo nel concreto», continua Rana Salman. «Normalizzazione in effetti significa legittimare o accettare le condizioni imposte dallo status quo senza cercare di cambiarle, mentre come Combattenti per la Pace non accettiamo affatto l’attuale situazione politica e militare e anzi ci manifestiamo in tutti i modi possibili contro l’occupazione, contro l’apartheid e la militarizzazione, per contribuire a mettere fine al ciclo della violenza e dell’odio, mantenendo fermo il nostro impegno per un futuro di pace, giustizia e dignità per tutti coloro che vivono tra il fiume e il mare. Siamo consapevoli della polarizzazione che sta crescendo in tutto il mondo, perché la guerra che si sta intensificando in questa regione non riguarda solo noi, ma ha effetti sul resto del mondo. Abbiamo visto l’avanzata della violenza sotto forma di antisemitismo o islamofobia e riteniamo che questo non aiuti coloro che stanno subendo la guerra ogni giorno qui, da oltre un anno e da anni: dichiararsi pro-palestinesi o pro-israeliani, o postare cose tipo ‘I stand for’ questo o quello, non contribuisce in alcun modo alla soluzione politica del conflitto. Un po’ tutti si sentono in dovere di scegliere un fronte in opposizione all’altro ma in questo modo si moltiplicano gli avversari e le divisioni anche fra di noi, mentre il problema è precisamente riaffermare l’umanità di tutti, in termini di vera giustizia e lavorare per il futuro di entrambe le parti perché sia i palestinesi che gli israeliani non andranno da nessuna parte fino a che non troveranno un modo di convivere insieme, in cui tutti abbiano la garanzia di pari diritti e che i diritti umani saranno rispettati e che tutti vivranno in condizione di libertà e giustizia e uguaglianza… questo è ciò che vogliamo».
«Non tutti sono pronti per questo genere di confronto», aggiunge Eszter Koranyi, «si limitano a guardare ciò che facciamo sia in Palestina che in Israele che nel resto del mondo e sono immediatamente critici sul nostro operato anche se magari non sanno chiaramente dire con che cosa sono o non sono d’accordo. E quindi sta a noi trovare il modo di entrare nei loro cuori più che nello loro teste, perché è da lì che partirà il cambiamento… a livello di percezione. Io credo che lo “strumento” che utilizziamo, di partire dalle nostre esperienze personali di trasformazione, è il solo che possa operare questo cambiamento. Non sempre funziona, ma in tutti i nostri incontri c’è sempre qualcuno che inizialmente si dichiara fermamente per una certa posizione, determinato ad affermarla a qualunque costo… e grazie a quel “qualcosa che succede dentro di lui” alla fine sceglie la co-resistenza il che dimostra che un cambiamento è possibile per tutti».
Durante tutti gli scorsi mesi, nonostante la difficoltà di essere presenti sul terreno, gli attivisti e le attiviste di Combatants for Peace hanno continuato nelle loro manifestazioni ogni giorno, ogni settimana, per chiedere il cessate il fuoco, la fine della guerra e il rilascio di tutti i prigionieri nella prospettiva di una soluzione politica. «Abbiamo manifestato in modi sempre non violenti ovunque abbiamo potuto, e abbiamo assicurato la nostra presenza di protezione ovunque fosse possibile per le comunità palestinesi che vivono nell’Area C soprattutto nella valle del Giordano», dice Salman. «Per esempio in questo periodo siamo quasi ogni giorno accanto agli agricoltori palestinesi per la raccolta delle olive e la nostra presenza rappresenta un baluardo concreto nei confronti dell’esercito e dei coloni che sono sempre più aggressivi man mano che si va avanti nel conflitto. Sia in area palestinese che israeliana, abbiamo un programma specialmente concepito per giovani tra i 18 e il 26 anni che si chiama “Freedom School” in cui insegniamo la storia e le pratiche della resistenza non violenta, mettendo a confronto le varie esperienze in varie parti del mondo, soprattutto laddove la non violenza si è rivelata un successo. E poi ci sono i social media, come usarli al meglio per promuovere delle campagne, come condividere le proprie storie personali in una prospettiva di trasformazione, e tutto questo crea le condizioni per un modo radicalmente diverso di confrontarsi collaborando insieme, anche quando il confronto sarebbe difficile. Ed ecco che alla fine ci si trova tutti attivisti per la pace avendo imparato a praticare relazioni di pace all’interno del movimento»
«Una cosa interessante da notare è che ci sono sempre più persone che si uniscono a noi», ammette Koranyi. «Ci saremmo aspettati la defezione di parecchi, e infatti alcuni hanno lasciato i nostri programmi: dopo il 7 di ottobre e durante la guerra che purtroppo continua ad infuriare nella nostra regione, molti hanno deciso che non era la loro storia… ma molti di più si sono aggiunti come volontari, impegnandosi in un lavoro di solidarietà nei territori occupati che è davvero difficile, che mette a rischio la loro vita, la loro sicurezza e dunque… siamo più numerosi di prima».
Credit foto Andrea Krogman
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