Medio Oriente
Israele – Palestina: il dialogo è possibile (e parte dai giovani)
Le Acli Milanesi hanno ospitato la prima tappa del tour promosso dal Movimento Nonviolento con i ragazzi e le ragazze di Mesarvot, rete di attivisti israeliani che si rifiutano di prestare servizio militare nell’esercito, e Community Peacemaker Teams - Palestina, che sostiene la resistenza nonviolenta contro l’occupazione israeliana. Sono cresciuti nelle colonie israeliane e nei territori illegalmente occupati. Sono contrari all'uso delle armi. Credono nella resistenza non violenta e dicono: «Noi lottiamo per la pace, chiediamo a voi di fare lo stesso»
di Anna Spena
Pace è una parola impossibile? Quello che sta succedendo in Medio Oriente sembrerebbe dire di sì. Eppure il condizionale è d’obbligo perché esiste un’altra realtà, meno raccontata, fatta di palestinesi e israeliani che attraverso la non violenza stanno provando a dire no alla guerra. I numeri sono certamente ancora piccoli rispetto all’orrore quotidiano a cui assistiamo dopo il 7 ottobre 2023. Ma comunque tracciano una strada, forse l’unica che ha senso percorrere. Le Acli Milanesi hanno ospitato la prima tappa del tour promosso da Movimento Nonviolento con i ragazzi e le ragazze di Mesarvot, rete di attivisti israeliani che si rifiutano di prestare servizio militare nell’esercito, e Cpt – Palestina, che sostiene la resistenza non violenta contro l’occupazione israeliana.
«Non ho le mani sporche di sangue»
Quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza e nel resto del West Bank, Daniel Mizrahi, della rete Mesarvot, lo chiama con il suo nome: genocidio. «Io sono israeliano», dice. «E so che il sistema israeliano educa i bambini alla armi, li educa a combattere i palestinesi. Lo scorso anno mi sono rifiutato di combattere, non sono entrato nell’esercito, è stata la scelta migliore che potessi prendere. Questo genocidio deve finire». La scelta di diventare obiettore per Daniel Mizrahi ha significato vivere per 50 giorni in una prigione militare. Ed anche in qualche modo vedersi additato come “quello diverso”. «Io», racconta, «non sono nato in Palestina, ma in America Latina. Mi sono trasferito qui, insieme alla mia famiglia, quando ero già adolescente. Siamo arrivati attraverso un programma per coloni israeliani. Ho avuto l’esperienza completa, so cosa significa crescere con la propaganda della società israeliana. Io la chiamo: il lavaggio del cervello. Ai bambini viene detto: “i palestinesi e gli arabi sono il nemico”. Rifiutarsi di combattere è la scelta migliore che può fare qualunque cittadino o cittadina israeliana. Ed è il primo step per costruire una società democratica ed inclusiva».
Sono coraggiosi questi ragazzi e queste ragazze. Non è stato semplice arrivare e non sarà semplice tornare in una terra dilaniata da guerra e odio. Una terra dove sono comunque diventati un target perché esprimo il loro pensiero che non si uniforma alla maggioranza della popolazione.
«Quando ho iniziato ad avere i primi dubbi sul servizio militare (che in Israele è obbligatorio ndr) non riuscivo a trovare una soluzione: non sapevo con chi parlare, non sapevo a chi chiedere aiuto. Mi sentivo bloccato. Sono cresciuto come colono In Israele la “cosa normale” era entrare a far parte dell’esercito. C’è una coincidenza che ha cambiato le cose. Avevo visto un articolo, credo italiano, sugli obiettori di coscienza. Ho iniziato a cercare on line e ho trovato il sito delle rate di cui oggi faccio parte. Gli ho scritto e già il giorno seguente sono stato contattato da un loro avocato, uno specialista sull’obiezione di coscienza. Abbiamo avuto una lunga conversazione e ho capito qual era la strada che dovevo e volevo percorrere. Non esagero quando dico che questa scelta ha cambiato profondamente la mia vita: invece di essere qui oggi a lottare per la pace avrei potuto essere nella Striscia di Gaza o in Libano e avere le mani sporche di sangue. Supportare la nostra rete è importante. É una rete che può cambiare la vita».
Pace e giustizia
Tarteel Al Junaidi, invece, è nata e cresciuta ad Hebron, nel West Bank. «Noi viviamo continuamente sotto la violenza dell’occupazione israeliana», dice. «I coloni di Hebron sono estremisti e violenti. Chiunque tra loro, così come l’esercito, può entrare nelle nostre case. Io stessa sono cresciuta così senza poter quasi mai uscire». L’organizzazione di cui fa parte Tarteel si chiama Community Peacemaker Team – Palestina. Nel 1994 il ramo internazionale di Community Peacemaker Teams – Cpt, è stato invitato dalla municipalità di Hebron a visitare la città dopo il massacro della moschea di Ibrahimi. Nel 1995 la prima squadra ufficiale di Cpt è stata istituita nella città città vecchia di Hebron. «Il piano prevedeva accompagnare la comunità per sei mesi finché la situazione non si fosse stabilizzata», spiega Tarteel Al Junaidi. «Ma la situazione non è mai migliorata. Il lavoro dell’organizzazione consiste nel raccontare le storie delle persone che vivono sotto occupazione. La propaganda israeliana dice che i palestinesi non vogliono la pace ma la guerra. Non è vero, i palestinesi non vogliono la guerra. Ma davanti a tutta questa violenza i cuori si riempiono di odio. Per chi vive sotto occupazione come noi è difficile pensare che la pace sia possibile. Abbiamo bisogno della pace, ma anche della giustizia. Non si può chiedere agli oppressi di parlare improvvisamente di pace, soprattutto non lo si può chiedere a chi vive sotto un’occupazione violenta. Bisogna lottare per la giustizia, perché tutte le persone abbiano ungule diritto a stare sulla nostra terra. Non voglio essere ripetitiva: ma prima dobbiamo parlare di giustizia e poi di pace e giustizia insieme. Come volontari di Cpt, e con noi ci sono anche volontari internazionali, facciamo accompagnamento non violento delle persone nella cose della loro vita quotidiana. Lo facciamo perché spesso si verificano attacchi. Quello di cui abbiamo davvero bisogno è il supporto internazionale, chi può venga a vedere con i propri occhi come siamo costretti a vivere. Abbiamo bisogno di voi lì. Abbiamo bisogno di sempre più persone che capiscano cosa significa vivere sotto occupazione così da poterlo trasferire alle vostre comunità. Andare in un luogo e vedere con i propri occhi è ben diverso dal leggero suol giornale. Quando le persone arrivano e vivono l’esperienza sulla loro pelle è tutto diverso. L’altro invito è alla comunità internazionale: fate finire il prima possibile questo genocidio. Dite basta al massacro in Libano. Non chiudete gli occhi su quello che succede nel West Bank occupato. Fate pressioni sui vostri Governi. Chiedete di interrompere i finanziamenti, e soprattutto l’export di armi, verso Israele».
«Entriamo e usciamo dal carcere perché non vogliamo combattere»
Per Sofia Orr, anche lei si è unita al movimento di Mesarvot, la pace «è l’unica opzione possibile per la sopravvivenza dei due popoli. Ma il problema è politico, quindi anche la soluzione deve essere politica». Anche Sofia si è rifiutata di combattere: «rifiutarmi è la cosa più grande che posso fare con il mio piccolo potere. Io ho 19 anni, sono nata in Israele. Ma la scelta di non far parte dell’esercito l’ho maturata molto prima del 7 ottobre 2023. Anche io sono stata rinchiusa 50 giorni in un carcere militare per questa mia decisione. Avevo davanti ai miei occhi l’occupazione che Israele da anni perpetrava nei territori palestinesi, questo mi bastava. Gli obiettori di coscienza della nostra organizzazione entrano ed escono dal carcere. Siamo una piccola rete e facciamo tutto come volontari. Vogliamo portare avanti un cambiamento, vogliamo farlo con mezzi pacifici. Ma per riuscirci abbiamo anche bisogno di sostegno finanziario per far fonte alle spese legali. Noi lottiamo per la pace dove ci troviamo e chiediamo a voi di lottare per la pace dove vi trovate».
In apertura l’immagine dell’incontro di Milano
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