Mondo

Israele i volontari tra le ceneri

Si chiamano Zaka. Sono i ragazzi che vengono chiamati ogni volta che succede un attentato. Intervista a Izak Berenshtain e Chaim Meingarten.

di Carlotta Jesi

Gilet gialli a strisce catarifrangenti. Scooter con una scatola d’acciaio fissata sul sedile posteriore. Radiolina ricetrasmittente all’orecchio. A prima vista, Izak Berenshtain e Chaim Meingarten, 29 e 33 anni, assomigliano ai ragazzi che consegnano la pizza a domicilio zigzagando nel traffico. Con la differenza che quando sfrecciano per la loro città, Gerusalemme, le macchine si spostano per lasciarli passare invece di insultarli con i clacson. E i pedoni s’attaccano al telefonino: «Passano i volontari di Zaka, dev’esserci stato un attentato». O un incidente mortale, o un suicidio, o qualche altra emergenza che richieda l’intervento di esperti in Zihui Korbanot Ason (Zaka): l’identificazione delle vittime di disastri, kamikaze compresi. A partire da un dente, da un arto, dal sangue o da altri resti che Izak, Chaim e gli altri 700 volontari di quest’organizzazione non profit, tutti fra i 25 e i 60 anni, raccolgono sulla scena di un attentato. Nelle 105 città israeliane in cui operano e, qualche volta, anche all’Estero. Dall’Africa agli Stati Uniti, dove Zaka è stata chiamata a lavorare tra le ceneri delle Torri Gemelle e quelle del Columbia Space Shuttle. Roba da gente con lo stomaco di ferro, da super eroi alla Rambo, pensi. Ma basta guardare i due volontari per capire che sono tutto il contrario. Izak, barba rossiccia, magro e dinoccolato, parla a bassa voce puntando gli occhi nell’aria, come se stesse guardando un filmino degli attentati in cui ha operato. Chaim, invece, capelli e occhi scurissimi, lo sguardo non lo alza mai. Forse perché troppo spesso si vela di lacrime e commozione. Cosa li ha spinti a entrare nell’organizzazione?

Chaim Meingarten: Quattro anni fa, mio zio è morto in un attentato. Io sono sopravvissuto e ho visto i volontari di Zaka che lo onoravano raccogliendo quel che restava di lui. Per la legge ebraica, il corpo umano è sacro. Sono diventato volontario per onorare mio zio e gli altri morti.
Izak Berenshtain: Sono un paramedico, ho sempre ammirato i colleghi che lavoravano per Zaka. Quando chiedevo loro perché lo facessero, rispondevano: per vera benevolenza. Espressione che, nella Torah, indica un favore che non potrà mai essere ripagato. Ventiquattro ore al giorno, 365 giorni l’anno: adesso sono a disposizione di Zaka.

Vita: Più che volontariato, sembra un impiego a tempo pieno. Come fate con il lavoro?
Meingarten: Ho un piccolo negozio di alimentari a Gerusalemme. Quando il cercapersone di Zaka che porto addosso suona, abbasso la saracinesca, salgo sul motorino e parto. I miei clienti sanno che sono un volontario, se trovano il negozio chiuso, tornano più tardi. Ma anche per chi è dipendente non ci sono problemi. Il primo capo di Izak era così orgoglioso di avere come dipendente un ragazzo di Zaka che gli dato il permesso di assentarsi e l?ha pure scritto sul contratto.
Berenshtain: Anche mia moglie è orgogliosa che io faccia parte di Zaka. Ho tre figli piccoli e spesso devo lasciarli nel mezzo della notte, o durante i giorni di vacanza, per intervenire. Mi è capitato di uscire con loro a comprare una maglietta, e di abbandonarli in un centro commerciale. Mia moglie all’inizio diceva: Izak, e noi? Pensa se fossero i nostri figli a rimanere vittima di un attentato, rispondevo io, non vorresti che qualcuno li aiutasse?
Meingarten: Le mie bambine sono fiere che io sia un volontario. Quando accompagno la più grande a scuola, mi chiede di portare lo scooter il più vicino possibile al cancello in modo che tutti sappiano che sono di Zaka.

Vita: Cosa succede quando arrivate sulla scena di un attentato?
Berenshtain: Il nostro primo compito è salvare vite. Il secondo, è onorare i morti. È l’idea di salvare qualcuno che mi aiuta ad andare avanti e a sopportare il lavoro di identificazione delle vittime. Che mi spinge ad aiutare chi ha veramente bisogno anche se, nello stesso attentato, è rimasta coinvolta una persona che conosco, come è accaduto quest’estate quando è saltato in aria l?autobus della linea n. 2 che passa per il quartiere in cui abito. Salvami, Izak, gridavano delle persone che conosco. Ma il fatto che gridassero, e che mi avessero riconosciuto, significava che non erano così gravi e che c?era qualcuno più urgente da aiutare. Sono arrivato tra i primi sulla scena dell’attentato, e ho visto un bambino di 7 anni, ferito. Trova mio papà, diceva, aiutalo. Ma il padre era morto. Non potevo dirlo a quel bambino: non c’era nessuno che potesse aiutarlo, spiegargli il perché. Ho fermato un ragazzo per strada e gli ho detto: prendi questo bambino, portalo in un ospedale e resta con lui finché non trovo suo padre. Gli attentati qui sono così frequenti che se affidi un bambino a qualcuno e gli dici di portarlo in ospedale, puoi stare certo che lo farà.

Vita: Non provate mai rabbia, davanti a scene così?
Meingarten: Rabbia è una parola troppo piccola per spiegare tutte le emozioni che senti e che non puoi permetterti di provare quando sei in azione. Per pensare all’odio non c’è tempo. Devi agire, e pensare, come un robot.

Vita: Riuscite a farlo anche quando vi capita di soccorrere dei kamikaze? Meingarten: Un giorno ero su un’ambulanza e sono dovuto andare a soccorrere un kamikaze che, per sbaglio, si era fatto scoppiare prima di raggiungere il suo obiettivo. Ricordo che ero sull’ambulanza e che tremavo. Sto andando ad aiutare un uomo che voleva uccidere dei bambini, pensavo.
Berenshtain: Noi crediamo che gli uomini, tutti, non solo gli ebrei, siano fatti a immagine di Dio. Che siano parte di lui. Anche i kamikaze, per questo li aiutiamo. Ma la nostra non è solo una missione religiosa, infatti non tutti i volontari di Zaka sono religiosi.

Vita: Ci sono anche donne tra i volontari?
Meingarten: Per il momento, non tra quelli che intervengono sul luogo di incidenti e attentati. La selezione dei volontari, cui partecipo, è molto dura. La prima fase consiste nel capire chi sono gli aspiranti volontari, in genere circa un migliaio di persone. Controlliamo che siano gente stabile, con una famiglia, un lavoro e una rete di amicizie. Di mille candidati, ne rimangono circa 400. Cui spieghiamo le motivazioni religiose che stanno dietro al nostro lavoro e quindi come farlo: cos?è una bomba, cosa devi fare quando arrivi sulla scena di un attentato, come identificare le vittime. In questa parte del corso, tenuta da un patologo, in genere perdiamo il 70% dei candidati. Chi resta, deve imparare a riconoscere le parti di un corpo morto. Dopo il primo attentato, rimangono circa 20 volontari.

Vita: Cosa dite alle vostre mogli e ai vostri figli quando tornate a casa dopo un attentato?
Meingarten: Non torniamo immediatamente a casa, rischieremmo di raccontare alla nostra famiglia esattamente cosa abbiamo visto e provato. Dopo ogni attacco, abbiamo un incontro di gruppo con uno psicologo in cui parliamo delle nostre emozioni. Ventiquattro ore dopo, ne facciamo un altro più tecnico per valutare cosa è andato bene e cosa no. Il supporto psicologico è molto importante: la nostra è un’organizzazione giovane e non sappiamo se, alla lunga, lavorare in questo modo potrà danneggiare la nostra mente.
Berenshtain: È come con il Prozac: per ora funziona, ma in futuro non sappiamo se la nostra attività di volontariato avrà effetti collaterali. È capitato che un volontario, insegnante, dopo tre attentati cominciasse a parlare di morte con i suoi alunni. Gli stiamo dando tutto l?aiuto psicologico possibile e, una volta ogni due settimane, andiamo tutti insieme dallo psicologo a parlare di come ci sentiamo. Sapere che non siamo i soli a provare paura, o rabbia, aiuta ad andare avanti.

Vita: Come spiegate ai vostri figli quello che fate?
Berenshtain: Sono molto piccoli. Quando torno a casa, mi affaccio ai loro lettini, li abbraccio, e sono felice che siano vivi.

Vita: Com’è cambiata la vostra vita da quando siete diventati volontari di Zaka? Meingarten: Sono il responsabile nazionale della nostra unità di scooter. Giro con un cerca-persone, un telefono speciale che consente di contattare i volontari anche quando c?è un attentato e in Israele tutti s’attaccano al telefono intasando le linee. Tutta la mia vita, adesso, gira intorno a Zaka.
Berenshtain: Apprezzo la mia vita molto più di prima e mi sento meno impotente di fronte alla precarietà in cui si vive qui in Israele.

Vita: Nel 2001, l’Onu ha nominato Zaka “associazione di volontariato dell’anno”. Tutti i media parlano di voi. Mai pensato di usare la vostra credibilità per chiedere la pace e un futuro diverso per israeliani e palestinesi?
Meingarten: La nostra forza è l’apoliticità, siamo volontari, non politici.

Vita: Che messaggio lancereste agli altri volontari del mondo?
Berenshtain: Siate fieri di quello che siete. Aiutare gli altri è un privilegio. Non tutti riescono a farlo.


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