La “rivolta del pane” che sta attraversando in questi giorni diverse nazioni del mondo arabo dovrebbe rappresentare l’occasione opportuna per operare un sano discernimento su quelle che sono state, in questi anni, le istanze della società civile nei Paesi della Mezzaluna. Infatti, accanto ai movimenti di matrice salafita fautori della jihad (“la guerra santa”) – quelli che hanno dominato la scena internazionale dopo il tragico 11 settembre del 2001, occupando peraltro quasi tutto lo spazio mediatico –, esiste anche un’altra variegata corrente di pensiero di matrice riformista che intende fare propri i valori della modernità, con l’intento d’integrarli con la sana tradizione islamica. A differenza però del salafismo, questo movimento modernista finora non era stata capace di manifestare una matrice unitaria, rimanendo confinato nei circuiti della clandestinità o della semiclandestinità imposta dai vari regimi. Ecco perché quanto è avvenuto al Cairo, come anche a Tunisi, per non parlare di altre nazioni in cui è in atto la rivolta, ha assunto una valenza epocale, avendo consentito a questa economia sommersa, fatta di menti straordinariamente innovatrici, di emergere dai bassifondi della Storia. Anche se al momento nessuno è in grado di fare previsioni sui futuri sviluppi della situazione nel mondo arabo, ciò che sorprende è che in tutti questi anni, soprattutto a partire dalla tragedia delle Torri gemelle, nessun Paese occidentale abbia mai avuto il buon senso e la lungimiranza di sostenere politicamente e finanziariamente questa intellighenzia islamica moderata. Tralasciando quelli che unanimemente vengono considerati i padri del cosiddetto modernismo islamico, come il giurista ’Abd al-Raziq (1888-1966) o il critico letterario Taha Hussein (1889-1973), vi sono state molte voci che hanno rivelato il bisogno di un cambiamento.
Emblematico, ad esempio, è il pensiero di Sayyed al-Qimanî, uno scrittore egiziano contemporaneo, che ha difeso a denti stretti il razionalismo, affermando che esso è patrimonio della tradizione islamica, riferendosi non solo al pensiero del filosofo Averroè, ma addirittura spiegando come un certo tipo di analisi razionale delle situazioni fosse una delle caratteristiche proprie del profeta Maometto. La parola del Corano, infatti, secondo al-Qimanî si storicizza incarnandola negli avvenimenti e non mantenendola in uno stato di astrazione e ripetitività come fanno i salafiti. Un altro intellettuale che ha invocato il rinnovamento è stato il suo connazionale Khalîl ’Abd al-Karîm, che ha presentato la propria lettura storica, basata direttamente sulle fonti storiche dell’islam, come alternativa alla visione fondamentalista degli estremisti.
E cosa dire di dell’intellettuale tunisino Mohammed Talbî, considerato uno dei pensatori critici più ragguardevoli del mondo arabo? Denunciando gli studiosi religiosi islamici tradizionali egli ha sostenuto con forza la necessità di una lettura contemporanea del Corano, ricordando, quasi provocatoriamente che «quando si rompono le penne, non rimangono che i coltelli». Avvincente è anche il pensiero di Mohammed Arkoun, scomparso pochi mesi fa e considerato uno dei padri del dialogo interreligioso. Professore emerito di Storia del pensiero islamico alla Sorbona di Parigi, Arkoun ebbe il merito di evidenziare le tensioni e le inquietudini presenti nel mondo arabo. Di nazionalità algerina, egli è passato alla storia come strenuo difensore del modernismo e dell’umanesimo islamico.
Per non parlare di personaggi del calibro del premio Nobel per la Letteratura, l’egiziano Nagîb Mahfûz, morto nel 2006 alla veneranda età di novantaquattro anni. Fautore di una religione tollerante e progressista, in aperto contrasto con le tendenze estremiste che inneggiano all’odio contro l’Occidente, aveva compreso che la missione dello scrittore consiste anzitutto e soprattutto nell’essere coscienza critica del popolo a cui appartiene. Ciò che colpisce di più leggendo le sue opere è il sano realismo che lo porta al superamento di ogni fanatismo ideologico e religioso. Si considerava un portavoce del “Terzo Mondo” e auspicava – sono sue testuali parole – «una pulizia morale» della società contemporanea, nella consapevolezza che, nell’eterna lotta tra il bene e il male, il bene avrebbe comunque prevalso. Mahfûz si opponeva dunque alla dottrina dello scontro delle civiltà, aborrendo le ideologie astratte e tifando per l’uomo della strada all’insegna della tolleranza. Un’altra figura straordinaria è quella di Mahmoûd Mohammed Taha, giustiziato dal presidente sudanese Ja’far al-Nimeyri il 18 gennaio 1985. Il suo era un nuovo modo di rileggere il Corano che portava alla netta separazione tra la dimensione religiosa della rivelazione coranica, universalmente valida ed immutabile, e quella politica, legata alle situazioni storiche e dunque mutevole. Taha proponeva pertanto la riconciliazione dell’islam con la libertà di religione, con i diritti umani e l’uguaglianza dei sessi. Per questa sua visione di grande apertura e dialogo fu impiccato a Khartoum come apostata.
Ma non è tutto qui. Circa una cinquantina di anni fa, il padre del riformismo islamico iraniano, Ali Shari’ati, diceva che l’islam contemporaneo è nel suo XIII-XIV secolo; e se guardiamo alla storia europea di quel tempo, scopriremo che per il Vecchio continente non era ancora iniziato alcun processo di modernizzazione. Secondo Shari’ati, per superare il Medioevo i musulmani non possono pensare di saltare a pie’ pari cinque, sei secoli, arrivando di getto alla cultura moderna. «Dobbiamo riformare l’islam – scriveva – rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medioevo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale». Le parole e la vita di Shari’ati, morto ufficialmente per arresto cardiaco a Londra nel giugno del 1977 – anche se sono in molti a ritenere che sia stato eliminato dalla polizia segreta dell’allora scià di Persia –, indicano chiaramente il percorso che occorre seguire.
In questi anni i Paesi occidentali hanno fatto o poco o niente per far conoscere al mondo queste voci che ogni intellettuale onesto, ogni politico che si rispetti e ogni giornalista competente dovrebbero diffondere per il bene e il progresso del mondo arabo. Lungi da ogni retorica, uomini come l’iraniano Akbar Ganji, giornalista simbolo della dissidenza al regime degli ayatollah, fanno davvero riflettere. A causa dei suoi articoli, e della partecipazione a una conferenza sul futuro dell’Iran tenutasi a Berlino – dove, secondo il regime iraniano, si era fatta «propaganda anti-islamica» – Ganji viene incarcerato dal 2001 al 2006 nella severissima prigione di Evin. È in questo periodo che trova la forza di scrivere, nonostante i patimenti inflitti dai suoi carcerieri, un manifesto politico in cui propugna il boicottaggio delle elezioni presidenziali per sostituire la teocrazia dominante con un governo democratico e laico. Nel 2010 ha vinto il premio “Milton Friedman”, assegnato dal Cato Institute «per avere dato un contributo significativo all’avanzamento verso la libertà». Ci sono naturalmente molte altre voci riformiste nel mondo islamico. Basti ricordare lo scrittore egiziano Faraj Fôda, che a lungo ha lottato per la laicità dello Stato e per la separazione tra religione e politica, e che venne assassinato dagli estremisti nel 1992.
Una cosa è certa: quanto sta avvenendo trasversalmente nel mondo arabo è sintomatico del malessere indotto dall’integralismo islamico. A questo riguardo è illuminante il pensiero di Abdelwahab Meddeb, nato a Tunisi e professore di letteratura comparata all’Università di Parigi X-Nanterre. Meddeb, con grande perspicacia, analizza le contraddizioni e i limiti del’islam salafita e, in particolare, le ragioni del latente scontro di civiltà con l’Occidente. Nella sua ultima fatica letteraria, intitolata La malattia dell’islam, denuncia l’ottusità dei fondamentalisti che guardano all’Occidente come alla causa di tutti i mali. E qui ha davvero ragioni da vendere a bizzeffe: per esempio, l’islam predicato dai fautori della jihad deve smetterla di auto commiserarsi, perché i suoi fallimenti sociali, a dispetto della predicazione delirante di certi imam, sono in gran parte una sua responsabilità. Non resta dunque che sperare nel cambiamento, augurandosi una maggiore coerenza dall’Occidente, paladino della democrazia. Che esso non ceda ancora una volta a quella che Martin Luther King definiva la peccaminosa tentazione del «silenzio degli onesti».
Giulio Albanese © AVVENIRE
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