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Isituti per minori: chiusura o lifting?
Per il governo la riconversione è avvenuta. Ma i fatti dicono che non è così. Forse occorrevano strumenti per applicarla ...
30 giorni dopo
In Italia va così. Obiettivo, legge, scadenza: abbiamo molta, troppa fiducia nelle strategie in tre tappe. Ma è davvero razionale fissare una data e attendere che un evento si autorealizzi? Prendiamo la 149 del 2001. Buone le intenzioni – riaffermare il diritto dei minori ad avere una famiglia o comunque a vivere in un contesto familiare – così così i risultati.
Almeno stando ai dati in circolazione. Nel 1999 i ragazzi in affido familiari erano 10mila. Otto anni dopo sono 12mila. Incremento assai contenuto (ma così inaspettato in tempi in cui la famiglia svapora?).
Trenta giorni dopo il termine stabilito dalla legge per la loro chiusura, secondo l?Istituto degli Innocenti di Firenze risultano ancora aperti circa 52 istituti (per lo più nel Sud), mentre sono 2.800 le strutture di accoglienza che ospitano circa 12-14mila minori non adottabili (e che il dato non sia certo la dice lunghissima: sarebbe certo necessaria un?apposita anagrafe in tutte le Regioni).
Diverso il punto di vista del governo. Missione compiuta. Così il sottosegretario alla Solidarietà, Franca Donaggio ha infatti risposto in commissione Affari sociali alla Camera all?interrogazione di alcuni deputati dell?opposizione sullo stato degli istituti per minori. «La riconversione è da considerarsi compiuta», ha detto la Donaggio, «anche se sono da stabilire, con le Regioni, gli standard di servizi e assistenza delle nuove strutture». Come stanno le cose?
Forzare un cammino
Così la sintesi di padre Giuseppe Rainone dei Giuseppini del Murialdo (una delle congregazioni religiose che in Italia gestivano istituti per l?accoglienza dei minori). «L?impressione è che la legge sia stata opportuna per forzare un cammino, un itinerario, ma che siano mancati interventi specifici per promuovere la cultura dell?affido. Tant?è che in molti casi gli istituti tradizionali hanno proceduto a una specie di riciclaggio». Un lifting edilizio, una ritoccatina qua e una là ed ecco la comunità di tipo familiare? Troppo facile, direte voi. Ma non così improbabile né raro, almeno seguendo gli esperti. D?altra parte, perché stupirsi: se si vuole che un cammino sia fatto veramente, occorre creare vere condizioni per la transizione. Che facile non è mai.
Per voltare pagina serve più di una scadenza. «Questo cambiamento è stato fatto sulle forze dei Comuni e sulle realtà del terzo settore. Non c?è stato un finanziamento ad hoc», spiega Raffaella Milano, assessore alle Politiche sociali del Comune di Roma, dove «tutti gli istituti sono stati chiusi ben prima della scadenza. Abbiamo incrementato gli affidi familiari del 25%: dal 2001 a oggi, 550 minori in affido familiare; disponiamo di una rete di 103 case famiglia accreditate per circa 650 minori. Complessivamente assistiamo oltre 36mila minori». Un impegno notevole, anche in termini economici.
E gli investimenti?
Del resto, in assenza di finanziamenti, è possibile soddisfare un diritto? Ed esso è egualmente esigibile ovunque? Non è facile rispondere, visto che è mancato in questi anni un monitoraggio. Le scelte delle Regioni sono state molto diverse. Hanno in tempi differenti recepito la 149 e solo in alcuni casi hanno stanziato dei fondi per accompagnare la trasformazione dei vecchi istituti. Cioè «strutture pensate in genere come separate dal resto della città che però erano chiamate a diventare una casa trasparente », secondo le parole di Adele Ferrari dell?Istituto Razzetti di Brescia (un ex orfanotrofio che però ha avviato la riconversione nel 1985).
Perché il rispetto della legge non sia solo formale ma sostanziale è necessario trasformare il rapporto con il territorio: le comunità di tipo familiare ipotizzate dalla 149 sono tali se di dimensioni contenute e soprattutto se alimentano dinamiche relazionali simili a quelle di un nucleo inserito nella comunità.
I soldi non sono tutto ?
Certo: stanziare dei fondi non è sufficiente. Era ed è necessaria da parte degli operatori una cultura nuova, fatta di dinamismo, intraprendenza, capacità di immaginare nuovi servizi. Va detto però che anche queste caratteristiche possono essere incoraggiate. Se le istituzioni fanno concretamente il tifo, la risposta è migliore. Due esempi. La Regione Veneto ha subito recepito la legge nazionale e deciso di erogare incentivi per l?adeguamento. Sei milioni e mezzo di euro tra 2001 e 2006. La Sardegna ha fatto scelte analoghe e attualmente conta 64 strutture residenziali socioassistenziali per minori (il 43,2% delle quali avviate fra 2000 e 2006). In più ha scelto di finanziare progetti di accompagnamento per giovani che escono dalle comunità.
Viceversa là dove il recepimento è stato tardivo e non sono stati stanziati finanziamenti, le difficoltà sono maggiori. Come se non bastasse, anche sul piano delle rette la quota giornaliera per ciascun ospite pagata (spesso con tempi lunghissimi) dai Comuni è estremamente diversificata (si va dai 30 ai 120 euro).
Ripensare la legge
Aquesto punto nessuna meraviglia che si inizi a pensare a una riforma. «L?affido familiare rischia il fallimento. Il numero dei bambini e ragazzi inseriti nelle strutture è aumentato di più dell?8% negli ultimi tre anni», ha detto don Oreste Benzi in un recente convegno, dove è stata presentata anche una bozza di modifica della 149 che mira a valorizzare il ruolo delle associazioni familiari nelle procedure di affido e a far chiarezza sulle comunità familiari (un solo esempio: le delibere del Piemonte e della Toscana vincolano la possibilità che più strutture coesistano nello stesso edificio; le altre leggi regionali non fanno riferimento all?accorpamento).
Ripensare la legge anche per far fronte a un fenomeno in aumento, quello dei minori stranieri non accompagnati, (6.426 al 30 settembre 2005 secondo il Comitato minori stranieri). Lo scorso anno, nella sola Agrigento ne sono sbarcati circa mille. Sono adolescenti per i quali è spesso difficile trovare famiglie affidatarie e che talvolta compiono i fatidici 18 anni in comunità. Diventando così clandestini? Per questo c?è già chi reclama, accanto alla riforma della 149, una revisione almeno su questo punto anche della Bossi-Fini. Evviva.
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