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Isaia non aveva l’elmetto

Parla Meir Shalev, uno dei più popolari scrittori israeliani

di Marco Dotti

«Gerusalemme ha una carica spirituale immensa. Proprio per questo, è come se la città fosse sotto scacco da parte di un reattore nucleare-spirituale.
Se la gente imparasse
ad ascoltare le voci
di Gerusalemme, la pace sarebbe più vicina»
«Amo Giovannino Guareschi, il suo Peppone e don Camillo, con i loro confronti carichi di passione e i tempi lenti del loro mondo piccolo. In fondo, la politica crede di seguire una linea tutta sua, retta e incontrovertibile, e poi, in un tempo altro come quello della provincia, è costretta a scendere a patti con la vita. Talvolta, ma non sempre, situazioni che altrove e su altri livelli sfiorano il dramma, lì, ai piani bassi, si umanizzano e assumono venature tragicomiche». Esordisce così Meir Shalev, uno dei migliori narratori israeliani. Il suo ultimo lavoro, È andata così (traduzione di Elena Loewenthal, Feltrinelli) racconta della sua famiglia, attraverso il filo conduttore di un aspirapolvere importato in Israele dagli Stati Uniti e di una nonna alle prese con un vera e propria lotta per la «pulizia della sua povera casa e per l’amore del suo povero marito, di fronte a polvere e pregiudizi, ideali e realtà, fango e critiche, parenti e vicini».
Vita: C’è molta “aria di famiglia” in questo libro. Che importanza ha avuto sua nonna per lei?
Meir Shalev: Non era una scrittrice, infatti non ha mai scritto nulla. Era una narratrice straordinaria. Era capace di quella virtù, molto rara al giorno d’oggi, che potremmo chiamare “racconto”. Un giorno, mi trovavo a Mosca per una presentazione, mi venne posta la domanda: «Quali sono gli autori che, più di ogni altro, l’hanno influenzata?». Risposi: «Bulgakov, Nabokov, Gogol e… mia nonna Tonia, nata in Ucraina». Tutti risero, credendo che scherzassi, ma non era così. La nonna era uno straordinario scrigno di storie, vicende, aneddoti, ma ciò che attirava la mia attenzione era la forza e la capacità di raccontare quelle storie. Anche le più piccole diventavano “grandi” se raccontate da lei. In fondo, questa è la virtù della parola. Parola che, se è carica di passione e amore, affascina e si imprime nella memoria. I libri non sempre hanno lo stesso effetto, la parola scritta non sempre fa vibrare le corde profonde della nostra anima. La parola sì.
Vita: Ricordo e potere della parola sono legati, quindi?
Shalev: Credo nel potere della parola sia come scrittore, sia come lettore, sia, soprattutto, come “ascoltatore”. Tutti i miei parenti – zie e zii- raccontavano storie bellissime. Anche mio padre che, però, mi diede un’educazione molto accademica, formale, rigida diremmo. Ma siccome era un poeta, impresse una curvatura particolare alla parola, una fascinazione direi, cosa che mi ha segnato, come uomo e come scrittore. Parola e ricordo sono legati, certamente: la parola traccia solchi profondi.
Vita: Eppure, nel libro, sempre parlando di sua nonna, scomparsa nel 1986, rimarca come negli ultimi tempo evocasse storie «che ricordava solo lei, grattando ferite che sarebbe stato meglio lasciar rimarginare». C’è anche questo, nelle storie di una famiglia in Israele…
Shalev: Certamente, ogni famiglia ha le sue corde sensibili, i suoi nervi scoperti, le sue piccole o grandi follie. Se questa famiglia vive in Israele è chiaro che alcune di queste corde coincidono con nodi particolarmente critici della vita di un Paese, e non solo di quello. Mia nonna era ossessionata dalla pulizia della casa, e attraverso questa ossessione ho colto la possibilità di reperire una chiave critica sulle cose, che poi sono cose, le vicende, le storie – tante storie, colte come in un campionamento – che forse tutte assieme danno uno scenario.
Vita: Nei quadri di queste piccole storie l’ambiente esterno filtra comunque nel “salotto di casa”, filtrano anche i conflitti, filtra il dolore. La storia e il tempo in costante crescendo della politica impattano contro la famiglia e i suoi “tempi lenti”, riprendendo la definizione che lei stesso ha speso a proposito di Guareschi…
Shalev: È proprio così. L’aspirapolvere è infatti al centro del dibattito che coinvolge nonni, zii, madri, padri: intere generazioni di parenti. Un dibattito a suo modo epocale, visto lo scenario in cui si colloca. Pensiamo al fatto che, nel secolo scorso, molti degli ebrei che lasciarono l’Europa orientale si diressero verso l’America. Altri verso la Palestina e fondarono lo Stato d’Israele, nel 1948. Il fanatismo si trovava a più livelli, e molti livelli (non solo di fanatismo, ovviamente) coesistevano: il socialismo, il capitalismo, il sionismo, il comunismo rivoluzionario, etc. Nella mia famiglia vi furono molti contrasti tra chi diceva di non avere abbandonato la fede avita e chi, invece, veniva accusato di averla tradita, abbracciando quella del capitalismo americano. Il vecchio mondo dei pionieri agricoltori, gente – come scrivo nel libro – «di spiga e di spada, gente che aveva trasformato le spade in falci, ma anche viceversa» vedeva di malocchio gli americani. Nonno Aronne, ad esempio, non perdonò mai suo fratello Isaia che decise di andare in America e far fiorire il deserto di Los Angeles, anziché quello di Palestina. Quando Isaia spedì a nonna Tonia l’aspirapolvere di costruzione americana che ho posto al centro del mio libro, beh, successe il finimondo.
Vita: Ne parla infatti nel libro…
Shalev: Oggi la cosa ci fa ridere o sorridere, ma posso assicurare che non era per nulla così “leggera” come può sembrare, il fanatismo ideologico era una bestia molto dura, allora come ora. Per molti anni l’aspirapolvere fu oggetto di un vero e proprio mistero. Mentre nelle altre famiglie del Paese i segreti riguardavano imbarazzanti fallmenti, oscure vendette, amori proibiti, ricoveri psichiatrici, offese criminali, gravidanze illegali, il nostro vero mistero era il grande aspirapolvere americano.
Vita: L’aspirapolvere è pensato per una polvere leggera, americana. Sua nonna, invece, ha subito delle difficoltà, trovandosi a lottare contro polvere di terra vera… Oggi, per restare nella metafora, quale polvere circola in Israele?
Shalev: Io sono nato e cresciuto in Israele, per me bambino Gerusalemme non era quella della Spianata del Tempio, ma l’orfanotrofio Diskin, il manicomio Ezrat Nashim, l’Istututo per ciechi. Cose più vicine alla vita. Gerusalemme ha una carica spirituale immensa. Proprio per questo, è come se la città fosse sotto scacco da parte di un reattore nucleare-spirituale. Se la gente imparasse ad ascoltare le voci di Gerusalemme, le voci di Isaia, Giuseppe, Gesù, Maometto, e non cedesse al canto delle sirene dei crociati di ogni tipo e colore, dei Saladino e dei guerrieri della fede… Allora forse avremmo nuovamente la pace. Anche qui, siamo tornati al potere della parola. La parola che libera, non quella che umilia. La parola che affascina e si imprime nel ricordo. Non la parola che predica guerra e ingiustizia. Né Giuseppe, né Isaia, né Gesù portavano l’elmetto. Perché dovremmo portarlo noi?


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