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Iraq: voto alla Camera, verità sulla guerra e strategia d’uscita

Per Nino Sergi, Segretario Generale di Intersos, "il voto alla Camera non deve limitarsi a un sì o un no, ma dev'esprimere la verità sulla guerra e la definizione d'una strategia d'uscita

di Paolo Manzo

Il nuovo voto alla Camera e la realtà dell?Iraq La Camera è chiamata a pronunciarsi sul rifinanziamento della missione militare in Iraq. Anche se il risultato del voto è scontato, speriamo che il dibattito possa questa volta esprimere l?avvio di un serio approfondimento sul significato della presenza militare italiana in quel contesto. Il sequestro di Giuliana Sgrena e l?uccisione di Nicola Calipari sollecitano una maggiore riflessione e forse una nuova valutazione politica. Questo contributo si basa sul lavoro e l?esperienza di INTERSOS in Iraq e sulla nostra visione della realtà. Non è semplice parlare della realtà dell?Iraq. Di quale Iraq? Di Baghdad? Del così detto triangolo sunnita che comprende Ramadi, Falluja e Tikrit? Di Najaf, Nassiryia, Bassora? Oppure di Mosul, Erbil, Sulemanyia? Le situazioni sono diverse, anche se ormai accomunate da un comune fattore, quello dell?insicurezza per chiunque rappresenti l?occidente e per chiunque collabori con esso, comprese le nascenti istituzioni e forze di sicurezza locali. Le condizioni di vita della popolazione non sono buone; l?insicurezza influisce su tutto; il terrorismo si rafforza e agisce quasi indisturbato; anche la resistenza trova ogni giorno motivi di ampliamento, grazie anche agli arresti, alle torture e ai bombardamenti indiscriminati che hanno colpito e continuano a colpire civili innocenti. Parliamo di quella resistenza che non ha nulla a che vedere con il terrorismo che va decisamente e inesorabilmente combattuto. La stessa Zona Verde a Baghdad, il cuore dell?Amministrazione dell?Iraq, è divenuta un diffuso bunker ove la principale preoccupazione è la propria difesa e la propria protezione e sicurezza, nella speranza che la prossima granata scoppi nello spazio del vicino e non nel proprio. Anche il contingente militare italiano a Nassiryia è ormai cosciente dell?inutilità della propria presenza. È sceso a patti e si è ritirato in buon ordine nel proprio accampamento, evitando ogni tipo di conflitto o di scontro, intervenendo quindi su azioni e compiti ben limitati. I militari italiani rimangono ancora in Iraq non tanto per garantire l?ordine nella provincia di Dhi Qar che riesce, bene o male, a gestirlo da sola, ma per rendere concreta la posizione politica assunta dal nostro Governo nella ?Coalizione dei volenterosi? e continuare a mostrare l?Italia al fianco degli Stati Uniti. Non corrisponde alla realtà, inoltre, continuare a presentare il contingente italiano con un?immagine simile a quella di una ?S. Vincenzo? pronta a rispondere a tutti i bisogni della gente, quando spesso la priorità di questi bisogni è suggerita dai servizi segreti che hanno ben altri scopi e finalità nel promuovere azioni ?umanitarie? nell?uno o nell?altro villaggio. C?è chi sostiene che la situazione stia radicalmente migliorando. La gente vive, certo. Con difficoltà, ma vive. Lavora, quando e come può, produce, apre negozi, internet cafe, compra e vende. Le scuole e le università, nonostante il rischio di sequestro a scopo di estorsione per i figli dei benestanti, continuano regolarmente le attività didattiche. Gli ospedali funzionano, con un elevato grado di professionalità del personale medico. Le piane lungo il Tigri e l?Eufrate producono. Nuove associazioni e organizzazioni non governative nascono e si sviluppano? La gente è stanca di presenza militare, di bombardamenti, di insicurezza, di banditismo, stanca di attendere: chi ha potuto si è mosso, con attività diversificate e rischiando. C?è anche chi resiste all?occupazione militare e c?è anche il terrorismo. Se con il terrorismo e la criminalità non si può venire a patti, con la resistenza irachena è ora di avviare una seria trattativa, sapendo che ormai non serve mostrare i muscoli, che non impressionano più, ma che occorre invece cedere qualcosa. Negare l?esistenza della resistenza e ridurre tutto al terrorismo non facilita certo la soluzione del problema. Coinvolgere gli esclusi Sono stati compiuti errori gravissimi, che sarà molto difficile recuperare. Si è smantellato indiscriminatamente tutto l?apparato politico e amministrativo esistente, perché legato al Ba?ath, il partito di Saddam. Si è inoltre sciolto l?esercito di Saddam, rimandano tutti a casa, dai generali ai soldati. È proprio qui, tra coloro che si sono visti esclusi dal potere ma anche semplicemente dal lavoro, che si annidano i nuclei della resistenza. Esiste infatti una diffusa opposizione ad un?occupazione militare che è stata incapace di gestire il paese fin nelle cose più semplici, di ricostruirlo, di garantire sicurezza, servizi essenziali. Un?occupazione che ha agito senza una chiara strategia, escludendo tutta quella parte della società irachena che, certo, era compromessa con il regime ma con la quale occorreva fare i conti in modo intelligente e selettivo. Sconfitto Saddam Husseyn e arrestati i maggiori responsabili dei crimini, il partito Ba?ath, odiato da molti, non avrebbe potuto rappresentare alcun serio pericolo, nonostante i circa quattro milioni di ?iscritti?. È stato invece bandito, divenendo così un riferimento clandestino importante per l?opposizione. Poteva essere accompagnato in un processo di transizione alla democrazia, come è stato nei paesi comunisti dell?Europa orientale, ma non lo si è voluto, escludendo così dal processo politico una parte fondamentale, anche se minoritaria, della società. Anche lo scioglimento dell?esercito è stato un errore che pesa e peserà nel futuro. Anch?esso andrebbe recuperato, perseguendo solo i responsabili dei crimini, integrandolo con le nuove leve recentemente formate. Occorrerebbe infine ridare lavoro e dignità alle tante persone espulse dal proprio impiego pubblico per il solo fatto di essere stati attivi nel partito Ba?ath. Esse hanno infatti avuto influenza nel passato, anche per propri meriti professionali. Se non vengono presto riassunte al lavoro e se non viene restituita loro la dignità potrebbero anch?esse rafforzare ulteriormente le file della resistenza o, forse, del terrorismo. Si tratta, nell?insieme, di quella minoranza che non ha partecipato al voto; minoranza di cui non si può fare a meno se si vuole garantire stabilità, sicurezza e unità al Paese, creando al contempo le condizioni per la fine dell?occupazione. Dire la verità sulla guerra e condividerne pienamente le responsabilità La Camera voterà sul finanziamento della ?missione di pace?, continuando così ad ingannare sé stessa ed il popolo italiano. Inganno ritenuto ormai insopportabile dallo stesso presidente della Commissione Esteri della Camera, Gustavo Selva, e dall?ex presidente della Repubblica e Senatore a vita, Francesco Cossiga. Si tratta, infatti, di una missione di guerra e non di una missione di pace. Il fatto che il Generale italiano Mario Marioli non ricopra solo la funzione di alto ufficiale di collegamento tra il Comando italiano e quello americano ma sia il Vice Comandante delle Forze della Coalizione toglie ogni residuale dubbio in proposito. Avendo i numeri in Parlamento per fare approvare il rinnovo del finanziamento e avendo il consenso del Presidente della Repubblica Ciampi, il Governo può senza alcun rischio dire la verità sulla missione. Anche questa verità fa parte della realtà da cui bisogna partire per trovare – meglio se con un ampio consenso nazionale – le soluzioni migliori per l?Iraq e per la fine dell?occupazione. Soluzioni che richiedono un?assunzione condivisa di responsabilità. Non basta più elencare di chi sono i torti e le scelte sbagliate, denunciarli, chiedere la fine di una presenza militare odiata dalla popolazione irachena e la restituzione dell?Iraq agli Iracheni. Si tratterebbe, nel momento attuale, di una restituzione velenosa, che avrebbe più il significato di fuga dalle responsabilità che non di aiuto alla soluzione del problema. Per la popolazione irachena, che rimane per noi il primo e principale riferimento nella valutazione delle scelte da compiere, significherebbe ricevere un peso impossibile da gestire nell?immediato, se non con il sangue. Esiste una strategia condivisibile? Che riesca a fare superare, senza dimenticarle, le divisioni del passato sulla legalità o meno dell?intervento armato e dell?occupazione in Iraq? Che riesca a superare le due posizioni del ?ritiro immediato? e della ?presenza di pace?, entrambe basate su elementi di valutazione politica che sono esterni alla realtà dell?Iraq? La gente, con il voto, ha anche espresso l?accettazione di un preciso cammino, definito nel tempo ma graduale. Cammino che alcuni avrebbero voluto diverso ma che la realtà irachena, con le sue difficoltà, divisioni e tensioni, suggerisce essere ormai l?unico percorribile: la definizione di una nuova costituzione, la sua approvazione popolare, le nuove elezioni politiche ed il nuovo governo democratico entro gennaio 2006. Questo cammino andrebbe ora assunto e condiviso da tutti e la comunità internazionale dovrebbe assumere la responsabilità di garantirne la piena realizzazione. Compresa l?Italia. Rimanerne fuori, come se il problema iracheno non riguardasse tutti, significherebbe solo fuga dalle responsabilità. A nostro avviso, il problema non è più, in sintesi, ?rimanere? o ?non rimanere?. Ma di perseguire, condividendone la responsabilità, il cammino tracciato. Alcune condizioni sono però necessarie. E su queste vorremmo che il dibattito si concentrasse. 1. La prima è la fissazione di una data precisa per la fine dell?occupazione militare dell?Iraq da parte degli USA e della Coalizione. Si tratta di una data che deve essere rivendicata con decisione al Governo americano ad iniziare dagli alleati nella Coalizione e dall?Europa e deve essere annunciata senza ulteriori ritardi, anche come segnale politico chiaro agli iracheni e ai paesi arabi e musulmani. Tale data non dovrebbe superare quella della costituzione del nuovo Governo nel gennaio 2006. Spetterà infatti al Governo legittimo, democraticamente eletto, decidere se richiedere o meno presenze militari straniere dopo tale data, in quale contesto e con quale mandato. 2. Al tempo stesso deve essere definita la relativa strategia di uscita, coinvolgendo le Nazioni Unite insieme alla Lega Araba e la Conferenza dei paesi islamici anche come garanzia per il rafforzamento dei processi democratici nella regione. In questa fase, purtroppo, non è realistica alcuna ipotesi di presenza istituzionale, operativa e di comando, delle Nazioni Unite in Iraq. Spetterà al Governo iracheno che uscirà dopo il processo costituente e le successive elezioni richiedere al Consiglio di Sicurezza un eventuale impegno in tal senso. L?Onu, con le sue Agenzie specializzate, potrà inoltre essere nuovamente preziosa per sostenere la fase della ricostruzione fisica, economica, ma anche istituzionale, sociale e civile del Paese solo dopo la restituzione della piena sovranità agli Iracheni e in un nuovo quadro di sicurezza. 3. Occorrerà, durante tutto il processo costituente, riuscire a ricreare un clima di dialogo anche con le forze che non hanno partecipato alla consultazione elettorale. In questa linea, andrebbero dati almeno tre segnali: la libertà di ricostituzione del partito Ba?ath per permettergli l?inserimento nel processo di transizione democratica, il recupero dei militari del vecchio esercito iracheno, la riassunzione delle decine di migliaia di funzionari pubblici espulsi dal lavoro per il solo fatto di essere stati iscritti ed avere avuto responsabilità nel Ba?ath. 4. L?assunzione di responsabilità deve riguardare anche l?Unione Europea, qualunque sia stata la posizione degli Stai membri rispetto alla guerra all?Iraq. Una co-assunzione di responsabilità, non subalterna ma da alleata, anche per aiutare l?Amministrazione americana ad uscire dalla propria visione unilaterale e messianica del mondo. L?UE non può più restarne fuori. Se continuasse a farlo, rischierebbe di decretare definitivamente il proprio ruolo secondario nei grandi problemi e nei grandi giochi geo-strategici internazionali. Se richiesta dal futuro Governo iracheno, la forza di occupazione dovrà sapersi trasformare in vera forza di pace e di sicurezza. Non esistono caschi blu, infatti, pronti a sostituirsi ad essa. Ma questa trasformazione, per potere essere credibile, dovrà vedere una forte presenza dei paesi europei, insieme agli altri, sotto un comando unificato e definito dal Consiglio di Sicurezza dell?Onu al fine di esprimere l?indispensabile multilateralità. Solo in un simile contesto può assumere significato la presenza del Contingente militare italiano in Iraq, con questo impegno da parte del Governo e con l?assunzione chiara e definita di questo cammino strategico. Altrimenti, sarebbe più utile e più onesto, verso gli stessi militari innanzitutto, riconoscerne l?inutilità e deciderne il ritiro. Prima di dover piangere altre morti inutili. Nino Sergi Segretario Generale INTERSOS


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