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Iraq. La svolta politica vista dalle ong. Il futuro è incerto, il nostro impegno no

Divise tra prudenza e ottimismo, le organizzazioni italiane a Bbagdad sono d’accordo sulla necessità di restare (di Emanuela Citterio e Paolo Manzo).

di Emanuela Citterio

Avsi Un interlocutore, finalmente Ottimisti. È la posizione dei cooperanti di Avsi: «Dopo il 30 giugno ci sarà finalmente un?autorità locale con cui dialogare. E soprattutto un quadro di intervento per i progetti di ricostruzione», afferma Gianpaolo Silvestri, coordinatore per il Medio Oriente. «Per come è composto, siamo convinti che il nuovo governo iracheno possa farcela». Avsi è intervenuta in Iraq nell?ottobre 2003 per la ricostruzione di una scuola e otto asili, con uno stanziamento di 350mila euro. Non ha personale italiano sul posto, ma due referenti iracheni, e collabora con la Chiesa caldea. «Finora a svolgere un ruolo di coordinamento è stato l?Unicef. La scuola che abbiamo costruito è stata indicata da loro». Msf Saranno i fatti a parlare Prudenti. Tre membri dello staff internazionale di Medici senza frontiere sono rientrati in Iraq dalla Giordania 15 giorni fa. Ma l?organizzazione non si sbilancia: «Valuteremo in base ai fatti, dopo il 30 giugno. Per ora non ci sembra ci siano segnali di un sostanziale cambiamento», dice Sergio Cecchini di Msf Italia. Problemi di sicurezza nei mesi scorsi hanno costretto gli operatori non iracheni di Msf (tutti di nazionalità diversa rispetto alle forze della coalizione) a riparare ad Amman, in Giordania. Ora la scelta di rientrare: una missione esplorativa guidata dal logista belga Hans Van Der Weerd a Falluja, Najaf e Kerbala. Finora l?azione di Msf si è concentrata nel quartiere sciita di Sadr City a Bagdad, scelto perché «era quello nelle peggiori condizioni e meno battuto dagli umanitari». Msf è rientrata ufficialmente in Iraq nel marzo del 2003: ne era stata espulsa nel 1992, dopo aver coordinato un progetto a favore dei curdi. Save the children Crediamo nel cambiamento «Dopo il 30 giugno ci aspettiamo un miglioramento soprattutto in termini di sicurezza», auspica Filippo Ungaro, portavoce di Save the children. Sono 250 le persone che lavorano nei progetti in Iraq, il 90% è iracheno. Il personale internazionale, una quindicina tra americani, inglesi, norvegesi e giapponesi, negli ultimi tre mesi si è spostato per motivi di sicurezza ad Amman. Save the children è presente in Iraq dal 1991, nel Nord. Dall?aprile 2003 fronteggia l?emergenza anche nel resto del Paese, con un budget di 10 milioni di euro. Tra gli interventi, un servizio di trasporto per permettere ai bambini di andare a scuola. «Da sempre chiediamo che il processo in Iraq venga gestito dall?Onu. Ora contiamo su un cambiamento decisivo». Coopi L?incognita della violenza «Operativamente, per noi dal primo luglio cambia poco»: ne è convinto Davide Martina, di Coopi. «Da tempo i nostri referenti iracheni sono le amministrazioni locali: municipalità e delegazioni del ministero dell?Istruzione con cui lavoriamo per creare nuovi posti di lavoro e monitorare i molti sfollati interni al Paese. Per ragioni di sicurezza, eviteremo di lasciare gli espatriati troppo a lungo sul territorio, attraverso il turnover. A preoccuparci è il clima generale di violenza contro chiunque cerchi di portare cambiamenti: ancora non è chiaro come la gente accoglierà il nuovo governo». Un ponte per Nulla cambierà. Purtroppo «Per come sono state fatte le nomine del nuovo governo, che a prescindere dei poteri è scarsamente rappresentativo, non crediamo che cesseranno violenze e combattimenti: tutti i suggerimenti di Braihimi, che aveva incontrato anche la società civile e i sindacati, sono stati disattesi. Per quanto riguarda la ricostruzione del Paese, mai decollata, purtroppo il 30 giugno non cambia nulla: a gestire gli appalti resterà il Pentagono e non credo che, di punto in bianco, le aziende americane potranno mettersi a ricostruire l?Iraq». Questa la cruda analisi di Fabio Alberti di Un Ponte per. Che conclude:«Restano poi ombre su due temi importanti: la distribuzione del cibo, che dalla chiusura del programma Oil For Food è stata gestita dal governing council e che sarebbe una pazzia bloccare ora, e la gestione del petrolio su cui gli americani hanno dovuto cedere il controllo». Cesvi Il lavoro deve continuare Il Cesvi opera anche in guerra e per questo, qualsiasi cosa accada dopo il 30 giugno, per la ong non cambierà molto. Almeno questa è la sensazione del suo presidente, Maurizio Carrara. «L?unica differenza potrebbe derivare dal fatto che se dovesse rientrare in gioco l?Onu, la situazione per noi migliorerà perché non saremo più considerati dai locali solo come i ?supporter? degli occupanti (cosa che in realtà non è), bensì come lavoratori che aiutano la popolazione. Noi continueremo a lavorare sul campo, anche perché il volontariato vero non si fa in funzione di chi governa». Terre des hommes Fiducia nella ripresa Anche dopo il 30 giugno Terre des hommes Italia resta in Iraq, in particolare a Bagdad, dove gestisce un centro diurno per bambini di strada. «Oggi il livello di stress è altissimo, ma mollare non si può», conferma il presidente, Raffaele K. Salinari. «La nostra speranza è che le agenzie Onu riescano presto a stabilire contatti con il nuovo governo. Il negoziato potrebbe produrre un accordo politico per l?apertura di un corridoio umanitario. Come prima mossa, il neoministro della Pianificazione ha ordinato alle ong di registrarsi presso il ministero. Entro il 30 giugno dobbiamo consegnare lo statuto e il piano delle attività. Se tutto è a posto, e il livello di sicurezza migliora, Tdh Italia può riprendere le attività a pieno regime».

Emanuela Citterio Paolo Manzo


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