Politica
Iran, la rivolta dell’azadeh
I giorni della protesta vissuti a Mashad, la città più conservatrice del Paese
di Redazione
Azadeh, ovvero l’aspirazione all’Occidente. L’accesso a Internet, ai beni di lusso, alla libertà nella vita di tutti i giorni. È per questo che i giovani sono scesi in piazza Quella che leggete è una corrispondenza dall’Iran di Sara Hejazi, giornalista di Vita magazine e di Yalla Italia. Il reportage è stato scritto fra lunedì 15 e martedì 16 giugno, giorno in cui questo numero di Vita è andato in stampa.
Mi trovo nella città di Mashad, nel Nord-Est dell’Iran, luogo di pellegrinaggio per tutto il mondo sciita, una città caratterizzata dallo spirito religioso, conservatrice per eccellenza. Anche qui si fa la rivoluzione.
Tutto è probabilmente iniziato molto prima della giornata di voto di venerdì 12 giugno e prima di sapere i risultati delle elezioni. La rivoluzione è iniziata con la campagna elettorale, è iniziata con la presenza della gente, soprattutto dei giovani, per le strade. È iniziata con la scelta dei colori: il verde per Mussavi, che è anche il colore dei discendenti diretti del profeta Maometto, e la bandiera iraniana, i colori di Ahmadinejad, l’affermazione dell’identità nazionale. La rivoluzione è iniziata con le parole di Ahmadinejad contro Rafsanjani, e con le accuse reciproche tra i candidati che hanno violato i tabù della sacralità del governo della Repubblica islamica e dei suoi esponenti; è iniziata così anche con il costante confronto tra le parti nella pubblica piazza della televisione, ed è anche iniziata sui social network come Twitter o Facebook, con la creazione, a partire dal mese di maggio, di gruppi a favore di Mir Hussein Mussavi, il riformista. Ci sono tanti Iran in queste ore; c’è l’Iran borghese, dei salotti in cui si discute da lontano, si guarda Voice of America o la Bbc con l’antenna satellitare, e mentre si sorseggia il tè e si ride, ogni tanto ci si rattrista pensando a quello che succede fuori. C’è l’Iran dei ragazzi che scendono a protestare, e rischiano di essere uccisi o feriti dalla polizia; c’è anche l’Iran dei più poveri, quelli per cui non fa alcuna differenza chi è il presidente della Repubblica. E poi c’è anche l’Iran di chi ha dato il suo voto ad Ahmadinejad, ma rimane sgomento di fronte alla violenza.
Le voci arrivano da fuori eppure per strada non si vede nessuno. Allora sollevo il capo e finalmente scorgo delle ombre sui tetti e sui terrazzi delle case tutt’intorno. Seguo anche io un gruppo di vicini che salgono sul tetto del palazzo, ed ecco che ci troviamo in alto ad urlare a turno «Allahu Akbar!». È un’atmosfera strana, il silenzio della notte iraniana rotta da voci energiche, voci di protesta, ma che si rivolgono a Dio. Qualcuno dice «stiamo facendo come nella rivoluzione del 1979!». Le urla si fanno eco da un quartiere all’altro della città ancora per qualche minuto, poi tutto tace. Vengo a sapere che questa manifestazione sui tetti non è un’azione nata spontaneamente, ma è stata organizzata tramite un passaparola che ha attraversato Facebook, o l’etere tramite sms. È una manifestazione per Mussavi. Chi ha organizzato questa protesta ha recuperato una pratica rivoluzionaria di trent’anni fa. Allora aveva lo scopo di rinsaldare le identità in senso islamico, oggi l’Islam serve come terreno neutro, come zona del lecito e legittimo da poter utilizzare per fare sentire la propria voce, il proprio dissenso.
Mentre torniamo sotto rimane una sensazione di entusiasmo, di euforia per l’esperienza di aver fatto parte di una moltitudine e di avere potenzialmente il potere di agire come gruppo. È la stessa sensazione che ci spinge ad andare l’indomani a Khriaban Sajad, la strada centrale di Mashad, da qualche anno a questa parte divenuta lo spazio dei giovani, dei coffee shop, dei negozi. Su Facebook hanno detto che lì ci sarebbe stata una manifestazione per Mussavi.
Tutti parlano di rivoluzione: “enghelob”, è questa la parola che ricorre più spesso nei discorsi tra la gente in queste ore. Ma a pensarci bene, di che rivoluzione si tratta? In realtà non vi è un ideale politico che muove i giovani a protestare, come invece succedeva trent’anni fa. Nel 1979 gli iraniani della rivoluzione erano imbevuti di ideologia, che fosse quella comunista, islamista, liberale, oppure erano mossi dalla povertà. Ma Mir Hussein Mussavi non è un ideale, è un candidato, è non è una condizione sociale.
«Io voglio la libertà», dice uno dei manifestanti. Eppure questa rivoluzione sembra così circoscritta alla classe sociale medio- alta, quella che ha accesso a internet, all’istruzione, ai beni di consumo “di lusso”, quella che alla parola “libertà”, azadeh, dà un significato molto particolare. Non si tratta di un concetto filosofico ma di un concetto pratico: azadeh è un’aspirazione all’Occidente, non tanto un’«intossicazione da Occidente» come avrebbe criticato negli anni 60 del Novecento il filosofo iraniano Al-e Ahmad. Piuttosto azadeh è la voglia di prendersi delle libertà nella vita quotidiana, nella pratica di tutti i giorni. Uscire, fare musica, andare ai concerti, non mettere il velo, vivere la sessualità senza ansie, riprendersi definitivamente lo spazio pubblico, questo è azadeh per i giovani iraniani che scendono in piazza in questi giorni. E, soprattutto per le ragazze, azadeh significa non essere discriminate per legge nei concorsi all’università o non dover chiedere al marito il permesso per viaggiare.
E per questa azadeh – che quindi è la richiesta di un cambiamento concreto nella vita di tutti i giorni – hanno dimostrato di essere anche pronti a morire, ma per ora, dall’altra parte, il governo non è ancora disposto a cedere il passo, anche perché questo significherebbe aver perso la rivoluzione islamica del 1979.
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