Presa diretta
Così la guardia costiera libica lascia annegare i migranti in mare
Il tremendo resoconto della nostra collaboratrice a bordo di Seabird, l’aereo pattugliatore dell’Ong Sea-Watch che da anni sorvola la frontiera liquida del Mediterraneo portando occhi e orecchie a testimoniare quello che altrimenti nessuno vedrebbe
Vedere un uomo che annega e non potergli rendere giustizia in altro modo, se non documentando quello che gli è successo, come ultimo atto di misericordia. È anche questo quello che succede a bordo di Seabird, l’aereo pattugliatore dell’Ong Sea-Watch che da anni sorvola la frontiera liquida del Mediterraneo portando occhi e orecchie a testimoniare quello che altrimenti nessuno vedrebbe.
Succede almeno quattro volte nell’ultimo mese, grazie ad una efficientissima e documentata cooperazione tra Frontex e la sedicente Guardia Costiera Libica, assistiamo all’intercettazione di imbarcazioni partire poco prima dalla stessa costa libica. Nessun utilizzo di giubbotti di salvataggio né misure di precauzione, li vediamo spingere a forza sulla motovedetta classe Corrubia senza numeri identificativi che l’Italia gli ha donato nel giugno 2023. Li vediamo tornare indietro da dove erano partiti.
Succede ancora il 2 marzo 2024, ma questa volta la presenza di una nave di soccorso, la Humanity1, intralcia i piani e soccorre un’imbarcazione che il libici hanno precedentemente inseguito senza successo. La radio, che di solito passa solo comunicazioni precise e formali sembra captare frequenze diverse, di un film d’azione. Frasi concitate e incitazioni ad allontanarsi dalla scena. I libici che in un primo momento sembrano aver accettato la situazione fermandosi a qualche miglio nautico di distanza, in realtà stanno solo preparando la mossa successiva.
Quando il gommone si sgancia dalla motovedetta libica a tutta velocità, anche noi che dai nostri quasi 500 metri d’altezza non sentiamo le voci e non vediamo gli sguardi, capiamo che non sarà più una regolare operazione di salvataggio quella a cui assisteremo. Puntano dritto a due delle imbarcazioni in difficoltà, salgono a bordo e ne prendono il controllo riavviando i motori. È a quel punto che il primo sciame di persone si getta in acqua. Si lanciano, uno dietro l’altro, nelle acque gelide del Mediterraneo di marzo. Come spettatori impotenti di un tragico film muto assistiamo in silenzio all’ultimo tentativo disperato di sfuggire al respingimento. Impossibile capire quella scelta se non si conoscono i lager libici e le torture a cui i migranti vanno incontro. Impossibile tenere traccia di tutte le persone ed essere sicuri che nessuno sparisca sotto il pelo dell’acqua.
Continuiamo a documentare i gommoni della Humanity1 che si avvicinano cercando di soccorrere le persone in acqua quando nel display della videocamera vedo una sottile colonna d’acqua alzarsi, come uno spruzzo, ma molto potente. «Hanno sparato» qualcuno dei miei colleghi dice.
Dopo quello sparo qualcosa cambia. Sono armati contro chi? Contro persone indifese che cercano di stare a galla, contro giovani che stanno in mezzo al mare a cercare di non farli annegare. Da lì, dalla fine dell’Europa, si vede la fine dell’Europa. Si vedono sgretolarsi i valori di rispetto e di tutela dei diritti umani di cui ci siamo fatti vanto, affogare sotto il peso di armi e mezzi che abbiamo finanziato.
Per almeno altre due volte le persone recuperate dalle imbarcazioni libiche si getteranno in acqua, ma da lì a poco la Humanity 1, a seguito delle minacce con arma da fuoco ricevute, dovrà abbandonare la scena dopo aver messo in salvo 77 persone. Decine sono quelle che restano in acqua e che verranno recuperate dai libici. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti una persona è annegata, ma ad oggi è impossibile sapere quanti altri hanno avuto lo stesso destino.
Foto: Martina Morini
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