Formazione

Io sono l’ultras del teatro

Intervista a Pippo Delbono. Il grande attore, ormai consacrato sul palcoscenico globale, resta un irriducibile ribelle

di Sara De Carli

Un Grido, il suo ultimo lavoro, lei racconta il momento in cui comunicò a sua madre di voler fare l?attore. Lei disse: «Ma che mestiere è l?attore, Pippo?». A distanza di anni, che risposta dà lei?
Pippo Delbono: Io credo sempre di più che l?attore sia un mestiere legato a qualcuno. Per questo mi piace più artista che attore, perché attore spesso viene inteso come qualcuno che sale su un palco, interpreta personaggi diversi e stop: mi sta un po? stretto. Artista invece è uno che sta davanti a qualcun altro e si fa tramite di un?esperienza di vita. Per me è essenziale avere un rapporto concreto con le cose e la realtà, l?essere artista passa solo da lì, da un processo di conoscenza della realtà: l?attore non è quello ?portato?. L?attore per come lo intendo io si fa filtrare da un?esperienza e la trasmette. Questo mi sembra più interessante: tra l?altro è l?unico modo per far sì che le parole diventino un?emozione che il pubblico percepisce.

Vita: Nel farsi filtrare dalla realtà c?è anche una trasformazione di lei come persona, ogni volta?
Delbono: Sì, ed è per questo che mi piace pensare più alla coscienza dell?attore che alla sua presunta e idealizzata incoscienza. L?attore è una persona lucida. Anche se si fa tramite di cose oscure, violente, tristi, disperate, non deve mai perdere la lucidità di chi officia un rito.

Vita: Questo concetto di lucidità sta vicino a quello di responsabilità?
Delbono: Certo. Anzi per me la lucidità è fondamentale proprio perché sei responsabile, in quanto stai trasmettendo qualcosa ad altre persone. Sei come una guida che porta le persone su per la montagna, portandole anche in zone sconosciute, misteriose. L?artista istrione e isterico, idolatrato dai fan per la sua eccentricità, non ha più senso: tu hai la responsabilità di creare un percorso di conoscenza, politico, spirituale. Altrimenti sei solo un animale da tappeto rosso, uno per cui apparire artista conta molto più che non esserlo.

Vita: Nelle scorse settimane Roberto Saviano ha detto che il teatro è l?ultimo luogo dove si può raccontare la realtà, visto che non lo fanno più né i media né gli scrittori. Immagino quindi che lei sia d?accordo?
Delbono: Sì, il teatro, come diceva Bergman, è un incontro tra esseri umani. È l?unico senso che rimane al teatro oggi: essere il racconto di esseri umani che si guardano e che vivono un?esperienza comune, un luogo dove ci si può guardare in faccia, parlarsi e creare un muro contro i poteri forti. Certo che potrebbe esserlo ancora di più: ma è una responsabilità che spetta sia agli artisti sia al pubblico. Perché il pubblico teatrale ormai è una nicchia di borghesi benpensanti, ci manca tutta una fascia di pubblico. Un esempio? Non riusciamo a portare a teatro gli ultras degli stadi.

Vita: Le piacerebbe?
Delbono: Certo, e non la trovo neanche una cosa così impossibile. Esistono compagnie che hanno provato a trasformare la violenza in fatto artistico, come La Fura dels Baus, in cui il pubblico che assisteva allo spettacolo viveva un?esperienza anche rischiosa. Poi anche loro sono diventati una multinazionale. Però il teatro non può prescindere dalla violenza che uno ha dentro, dal bisogno che uno ha di gridare contro. Alcuni dei miei spettacoli hanno una forte dimensione di violenza, per esempio in certi momenti i volumi sono altissimi e certe persone impazziscono, ci sono momenti in cui la gente vuole andare via. Però poi la violenza si trasforma in qualcosa d?altro. Io non ho dubbi che se un ultras venisse a vedere un mio spettacolo non si annoierebbe, anzi si ritroverebbe in certe sue manifestazioni. Il punto è che ormai nessuno pensa più che a teatro si possa ritrovare quell?energia non colta che vive nei concerti, quella di un certo rock che sublimava l?esperienza frustrante del quotidino. Oggi questo ruolo è stato demandato allo stadio, a forme e luoghi lontani dal fatto artistico, ed è un peccato. Perché così il teatro rimane un?isoletta profumata per attori e spettatori profumati.

Vita: Anche i suoi sono attori profumati?
Delbono: Dopo 45 anni in manicomio quel profumo se ne va. Gli attori della mia compagnia hanno dato parecchio fastidio agli intellettuali e ai critici. Perché finché tu fai uno spettacolo sui barboni o sui manicomi, finché stai nella nicchia, va tutto bene e ti danno i premietti. Ma se questa esperienza dura 12 anni, come è successo a noi, cominci a rompere le palle a tutto il sistema. Perché stai contaminando il sistema. E la mia scommessa è esattamente questa: la cosa interessante non è che abbiamo fatto un?esperienza, ma che stiamo immettendo qualcosa di nuovo nel sistema, qualcosa che ha cambiato noi, loro, il pubblico.

Vita: Nei suoi spettacoli è evidente fin dal primo impatto che lei ha inserito attori diversi – malati psichici, barboni, disabili – non per fare teatroterapia o teatro sociale ma per un motivo solamente artistico…
Delbono: Si vede bene in Grido, dove racconto del mio incontro con Bobò, questa persona che è stata 45 anni nel manicomio di Aversa. Se lui non avesse avuto quegli occhi e quel viso non ci sarebbe stato questo film: Bobò nel suo viso ha qualcosa che fa innamorare, ha la bellezza di qualcuno che veramente scopre il mondo ogni volta. Bobò si mette una corona sulla testa e diventa un re, si mette le ali e diventa un angelo, ha una straordinaria capacità di entrare nel personaggio e nel contempo di rimanere se stesso. Nella mia compagnia c?è un ragazzino down, che è lì perché il suo sguardo comunica bellezza. C?è Nelson, uno schizofrenico, che canta My way e riesce ad essere di un?emozione incredibile. Non scambierei mai Nelson con – che so – Ramazzotti: ma non perché sono buono, comunista o cristiano. In questo sta la differenza fondamentale. C?è un teatro che si fa per fare bene alle persone, per aiutarle a guarire: fanno benissimo a farlo, è rispettabile, però è diverso dall?arte.

Vita: Cos?è l?arte?
Delbono: Io cerco bellezza. La bellezza è qualcosa che centra con la poesia. Grido per esempio non è né un documentario né una fiction, è un racconto che sta in una zona fra la verità e il sogno: quello per me è il fatto artistico. Prende una dimensione di verità ma senza mai perdere la possibilità di volare, di andare contro lo spazio e il tempo, che è poi il senso di un cinema neorealista, quello di cui oggi c?è un gran bisogno. Come diceva Dante, ci vuole il coraggio di scoprire la bellezza della verità.

Vita: Posto che lei rifiuta la retorica della poeticità della follia, c?è un nesso fra arte e pazzia o fra arte e dolore?
Delbono: Certo, c?è anzi un rapporto di assoluta necessità. Se l?artista non si confronta con il suo dolore, non è nemmeno un artista. L?artista deve essere folle, ma non è detto che il folle sia artista, tant?è che a me in una vita intera è capitato solo tre volte di incontrare folli che sono artisti. Il dolore ce l?abbiamo tutti, non è che sia uno specifico dei matti, dei poveri e dei deboli.

Vita: Raccontando il dolore, accade quello che diceva Hannah Arendt, che il dolore per il fatto di essere raccontato acquista significato?
Delbono: L?interessante non è stare nel dolore, ma il trasformarlo. È nella trasformazione che il dolore può diventare un?esperienza artistica.

Vita: Il suo teatro quindi non mira solo a raccontare la realtà, ma a trasformarla? Penso al fatto che l?incontro con Bobò ha cambiato la vita di entrambi, visto che ora vivete insieme.
Delbono: Sì, anche se io non ho scelto la strada del missionario. Siamo sempre alla pari: queste persone hanno dato molto alla compagnia, è chiaro che la compagnia deve prendersi la responsabilità di curarsene anche fuori dal lavoro. È un giusto cambio, niente di più. Bobò vive spesso a casa mia ma è anche un fatto di desiderio: tra l?altro è un partner ideale perché sta zitto e non ti devi continuamente confrontare con quello che pensa l?altro, una cosa che rende terribilmente difficili le relazioni amorose e famigliari. Riesci a essere insieme e in solitudine. Nelson invece non lo terrei a casa mia neanche per un?ora. Non mi piace il concetto del ?mi sacrifico per te?, mi ricorda la famiglia nel suo senso negativo, costrittivo. La spiritualità la vivi nella carne, non nel sacrificio: nell?atto del fare l?amore, per esempio.

Vita: Il corpo in effetti è una cosa che colpisce moltissimo nei suoi spettacoli. Una dimensione titanica a volte, comunque sempre in primo piano, curata nei dettagli dei movimenti, maniacale.
Delbono: Il teatro è corpo. Io ho iniziato con un teatro tradizionale, dove la forza trainante era nella psicologia dell?attore. Poi ho fatto l?esperienza del teatro dell?Oriente e ho scoperto il corpo. Il mio corpo di non danzatore piano piano ha trovato la sua dimensione, la sua capacità di muoversi, di stare sulla scena come un corpo che parla continuamente. L?incontro con la danza è stato decisivo, sì, soprattutto quello con Pina Bausch. Mi sono innamorato più del corpo e della danza che del teatro. Anche nel montare uno spettacolo sono molto coreografico, non seguo solo il testo, il senso delle parole: la mia è una drammaturgia del corpo, del come usi le mani e le braccia, o come non le usi, visto che si danza anche nell?immobilità. Il corpo ci dà la possibilità di comunicare al mondo, anche quello culturalmente diverso, è un messaggio universale, mentre le parole sono limitate. E comunque anche le parole vanno fatte danzare.

Vita: In un?intervista ha detto che ha avuto la fortuna di avere molti maestri, mentre di solito è più facile che ti capitino professori. Che differenza fa?
Delbono: I miei maestri sono Riszard Cieslak, Iben Nagel Rasmussen, Pina Bausch. E anche Frank Zappa, che non ho mai conosciuto, ma mi ha insegnato a fare un viaggio onirico nella musica. Il maestro è qualcuno che ti insegna una tecnica, anche con durezza, che ti dà un modo di guardare il mondo. Il maestro non ti dice dove andare in montagna, ti insegna un passo: poi una volta che sai il passo, vai dove vuoi. Il professore invece ti insegna delle cose. Io ho tenuto seminari dove insegnavo solo a fare il passo del samurai. Allora i miei allievi dicevano: «Ecco, viene Delbono, tutta questa emozione e poi mi insegna solo un passo, per di più noioso?». Sì, ti insegno un passo. Ho poco tempo, non ti metto qua a emozionarti, ti do un passo, poi vai dove vuoi.

Vita: Ha anche detto che se Pasolini fosse nato adesso, non direbbe le stesse cose. Cosa direbbe?
Delbono: Quando si parla degli autori classici spesso li si tiene imbalsamati. Tu devi portare lo spirito di un autore, il suo modo di rapportarsi alla vita. Pasolini aveva nei confronti delle cose un atteggiamento di verità. Sapeva essere con i comunisti o contro i comunisti, con la Chiesa o contro la Chiesa, con i giovani del 68 o contro: perché cercava la verità. Se fosse vivo, chissà? Certe persone sembra che sono morte perché sentivano quello che sarebbe successo. È più difficile oggi essere Pasolini, perché ormai c?è una melassa che ha contaminato tutto, è più difficile riconoscere chi sono gli amici e i nemici, dov?è il vero e il falso. Pasolini oggi impazzirebbe: lui diceva «io so i nomi di chi c?è dietro». Adesso c?è sempre qualcuno dietro a tutto. Magari non lo ucciderebbero nemmeno più. È difficile dire cosa direbbe una persona oggi: io gli contesterei il suo essere troppo bigotto, quella dicotomia tra bene e male, peccato e non peccato. Io sono più orientale di lui: non esiste il bene e il male, esiste l?essere umano che dentro si porta tutte queste cose e decide cosa essere.


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