Famiglia

Io, i kamikaze e i cecchini

È volontaria, e collaboratrice di Vita. I giornali italiani l’hanno sbattuta in prima pagina con l’accusa di un fatto mai commesso (di Francesca Ciarallo).

di Redazione

L? Ism ha organizzato una commemorazione. Siamo un gruppo di italiani, americani, britannici. Siamo troppi per un solo taxi collettivo, per cui ci dividiamo. Nel gruppo ci sono anche Hanif e Omar. Non ricordo se fossero sul mio stesso taxi, ma c?è un dettaglio che ricordo con chiarezza. Un gruppo di persone si era avventurato nella spianata tra la casa del dottor Amin, quella di cui Rachel stava cercando di impedire la demolizione, e il confine egiziano. Una fascia larga più di 100 metri, occupata dall?esercito israeliano per motivi di sicurezza. Il gruppo voleva depositare dei fiori per Rachel. Immediatamente è arrivato un tank e si è diretto verso di loro. Non sono riuscita a vedere tutta la scena, non ero vicina. Quando le persone sono tornate indietro nel posto dove stavamo aspettando, uno del gruppo, un ragazzo alto e grosso, si è avvicinato a noi che eravamo rimasti indietro e urlando ci ha detto “ho visto il tank, ho visto il tank! Era immenso, non pensavo che esistessero tank così grandi! Era vicinissimo!”. Sembrava un bambino eccitato, ricordo di avergli dato mentalmente del bamboccio. Questo ragazzo era Hanif… che qualche giorno dopo si è fatto scoppiare in un bar sul lungomare di Tel Aviv. Da quel giorno nella Striscia di Gaza non ho più visto né lui né il suo amico. La sera stessa sono tornata a Gerusalemme, passando per il valico di Eretz che ho attraversato a piedi, alle sei e mezzo circa, assieme ad altre persone, tra le quali non c?erano i due inglesi. Qualche giorno dopo l?attentato, ho ricevuto una telefonata in piena notte. Una delle persone presenti quel giorno a Rafah mi informava che il kamikaze di Tel Aviv era proprio quello cui io avevo dato del bamboccio, e l?altro che era riuscito a fuggire era il suo amico. La mia prima reazione è stata di sgomento e incredulità. Pensavo fosse uno stupido, macabro scherzo. Ho chiuso il telefono e ci ho messo un po? di minuti a realizzare che non poteva essere uno scherzo. Ho richiamato il mio interlocutore per un?ennesima conferma, magari si era sbagliato, magari aveva capito male, magari… Sono rimasta immobile, al buio, non so per quanto tempo, il mio corpo gelato per lo shock. Quella notte la ricordo come l?inizio di un incubo. Ho deciso, volontariamente e senza costrizioni, di raccontare alle autorità israeliane come, dove e quando la mia strada si era incrociata con quella dei due assassini. Dire la verità era un obbligo, per quanto, pur consapevole di non avere niente da nascondere, la paura che mi potesse succedere qualcosa e il rischio di non essere creduta erano sempre presenti nella mia mente. Davvero non credo che una persona come me avrebbe mai potuto immaginare di trovarsi in una tale situazione. Ancora oggi lo trovo surreale. Le autorità israeliane mi hanno trattato bene, con estrema gentilezza, e mi hanno ringraziato per l?aiuto dato alle loro indagini. Qualche palestinese potrà pensare che io sia una collaborazionista, ma questo non è un mio problema. Il 20 maggio sono tornata in Italia. Credevo di essermi lasciata questa incredibile storia alle spalle, ma a dieci giorni di distanza dall?infiltrazione dei due terroristi nei circuiti del volontariato internazionale, alcuni mezzi di informazione hanno deciso di aggiungere alla violenza delle bombe anche la violenza verbale e lo ?sciacallaggio mediatico?. Da un giorno all?altro, il mio nome è stato associato all?immagine di una giornalista ?pasionaria?, che ha scorrazzato per i territori occupati ospitando terroristi sulla propria automobile per ?evitare controlli più accurati?, mentre io non ho mai posseduto una macchina, né utilizzato autovetture altrui. Non ho neppure una patente valida in Israele. Inoltre, quando si oltrepassa il valico di frontiera di Eretz, il confine tra lo Stato di Israele e la Striscia di Gaza, le autorità di frontiera ritirano il passaporto, timbrano il visto e registrano il giorno e l?ora di entrata e uscita. Per qualsiasi giornalista serio sarebbe stato facilissimo verificare che io non ho mai oltrepassato quel posto di blocco con gli autori dell?attentato a Tel Aviv. Certo, l?occasione è stata ghiotta per molti: certa stampa italiana, che non può più dipingere i pacifisti come amici di Saddam, adesso si diverte a dipingerli come amici dei terroristi, senza accorgersi che in questo modo sta facendo proprio il gioco di quel terrorismo che viene messo in crisi dalle azioni concrete di chi prova a dare una risposta nonviolenta al conflitto in Medio Oriente. Sono ancora troppi gli interrogativi aperti su questa questione: come mai i due attentatori, prima di compiere il loro gesto criminale, si sono premurati di fare ?terra bruciata? sul loro percorso, compromettendo con pochi attimi di compresenza tutte le organizzazioni internazionali, i volontari e i giornalisti che hanno avuto la sfortuna di entrare nel loro raggio d?azione? Come mai le autorità israeliane si sono affrettare a cavalcare l?ondata di sensazionalismo per chiudere le porte a tutta la stampa indipendente? Come mai il capo dell?ufficio stampa governativo Daniel Seman non ha ritenuto opportuno spiegare ai cittadini israeliani come hanno fatto i due criminali a scorrazzare indisturbati in Israele e nei Territori, ma si è affrettato a dichiarare che in futuro gli accrediti per la stampa estera verranno negati “alle piccole testate sconosciute e a ogni genere di riviste di sinistra radicali?!. Il chiasso diffamatorio del sensazionalismo mi ha fatto male, ma forse quello che mi ha più sconvolto è stata l?indifferenza verso queste dichiarazioni programmatiche di censura, ignorate dalla maggior parte dei giornalisti che hanno raccontato questa vicenda. Basta una presunta ?giornalista pasionaria? per dichiarare illegale in Israele l?informazione indipendente? Se è così, allora è tutta l?informazione ad essere in pericolo, perché quando dal Medio Oriente mancherà il giornalismo dei free lance e della stampa libera, fatto con passione e voglia di vivere quello che si racconta, allora anche l?informazione di plastica dei grandi e rinomati gruppi editoriali sarà condannata a una inevitabile morte per asfissia e per mancanza di contenuti. Nel frattempo incrociamo le dita, e speriamo che qualcuno riesca a spiegare alla società civile israeliana e ai suoi dirigenti che il volontariato internazionale, la libera informazione indipendente e una forte presenza europea possono essere gli strumenti migliori per la lotta alla violenza omicida del terrorismo. di Francesca Ciarallo


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA