Non profit

Io e Ruhune, bambino già uomo

Il diario di una volontaria dai villaggi di Katana e Buhrale

di Redazione

Non ha più la mamma. Il papà lavora lontano. Il fratellino
è malato di Aids in ospedale. «Lui è comunque capace di sorridere. E di conquistarmi: “Donna, portami via”»di Simona Carioti da Katana (RDC)
«Mzungu nibebe!». Me lo gridava forte, Ruhune. E il suo sguardo si attaccava alla mia maglia col peso di cento mani. Il cuore tradusse quelle parole prima che le mie labbra ne domandassero il significato. «Donna bianca portami con te!».
La mia vita si inginocchiò davanti a quella voce e io feci lo stesso. Abbracciai quel bambino tutto occhi e gambe, nei battiti accelerati di entrambi c’era lo stesso linguaggio, ma nessuna risposta.
Ruhune non conosceva le carezze, le accettava per farmi piacere. Aveva sette anni e la sua colonna vertebrale era uno stelo; si piegava, ogni giorno, sotto il peso di cesti e recipienti colmi d’acqua. E non si spezzava, restava in equilibrio sulla punta di quelle ossa strette e musicali. Ero io, la donna bianca, a restare schiacciata. «Domani torno, tesoro».
Mi contaminò col suo sorriso Ruhune. Per un attimo pensai che la vita potesse esser tutta lì, accovacciata in quella gioia senza rete. Lo strinsi a me e mi staccai piano da quell’emozione. Poi Ruhune diventò una lucciola sfocata nel blu africano.
Camminai inquieta sulla scia di quel ciao bugiardo. Il fango si appiccicava ai sandali e ai vestiti, ma mai quanto lo facesse il pensiero di quel bambino, un puntino smarrito in un continente, un viso magro e santo.

Una famiglia senza nessuno
Sua madre si era spenta nel sangue del suo quarto e ultimo parto. Suo padre lavorava a 30 chilometri di distanza, settimane di piedi scalzi, su quelle strade nude. Il fratello Koko, tre mesi, dormiva in ospedale, lontano, senza svegliarsi dal giorno del battesimo, percosso da un male adulto che massacrava la sua innocenza. Aids. Cos’è un bambino se gli viene rubato il pianto della nascita? E cosa posso raccontargli io, se per lui persino un bacio non ha sostanza?
In Africa, spesso, un neonato è già un uomo. Man mano che passano gli anni, si gonfiano a dismisura il suo entusiasmo e la sua pancia, come una palla bella, ma colorata solo in superficie. Perché dentro c’è un’anima che non sa dove andare, un soffio beato rinchiuso in una gabbia di ossa orfane di nutrimento.
Non riuscivo a dormire. Ripensavo a Ruhune e a Koko, alla sua fronte calda, solcata da ricciolini che sembravano caramelle, a piedini così piccoli da sparire, fra carezze, coperte lise e respiri svelti. Quei respiri li sentivo sempre, ma di notte esplodevano; quando la Luna allagava il cielo il silenzio riempiva la mia mente di milioni di domande. Senza risposta.
Avevo conosciuto Ruhune in un villaggio incastonato in una terra rossa e verde, tormentata da una floridezza ingannevole. Stradine scarabocchiate, salite arrotolate e fango profumato di mango: questi i lineamenti di Buhrale.
Le suore percorrono quelle vie bisbetiche cantando. Sono madri e donne le suore del Congo. La loro fede ostinata tiene in piedi un mondo alla rovescia; inventano favole pratiche e nella Cana africana fanno miracoli ogni giorno, trasformando banane e manioca in un tutto alimentare che nutre corpi e assenze.
Non sono difese da cicatrici le ferite che curano le suore. Sono righe bianche di una pellicola sciupata, spigoli di un’innocenza a brandelli, succhi acidi di pianti e miasmi di guerra, fili aggrovigliati di un meccanismo spietato che impedisce a un bimbo di essere bimbo, abbassando gli angoli del cielo.
A Katana i piccoli crescono, grazie alle suore. Orfani anche di se stessi, soldatini di piombo inconsapevoli in un fresco passato ed esili come foglie di tè, studiano, cantano e mangiano insieme. Una normalità che là si chiama prodigio.
Avrei voluto che ci fosse anche Ruhune in quella sala di legno, a gustare banane fritte e speranza. Forse, mescolato agli altri bambini, avrebbe imparato il gioco delle carezze; forse, se la fame non l’avesse scavato fino al cuore, avrebbe potuto capire il mio amore. Ma i sentimenti sono riservati a chi ha la pancia piena.
Nel centro nutrizionale di Buzine, a Buhrale, le suore apparecchiano l’impossibile col poco e gli sguardi dei piccoli sono così deboli da colare via con la pioggia. Ruhune non andava tutti i giorni a Buzine perché doveva lavorare. Non aveva l’energia per due passi, ma i parenti lo costringevano ad andare avanti e indietro, smilzo e irregolare, per portare acqua e frutta.
Immagini che di notte prendevano nuova forma in sogni dove era impossibile bloccare la disperazione: arrampicata sui sedili posteriori di una jeep, non volevo non guardare. Sembrava un film all’inizio, invece no. E quella sensazione d’impotenza che mi ha afferrato, ha spezzato la mia coscienza spingendomi a ritrattare il significato di “compassione”, mi ha scaraventato in una centrifuga del tempo dove tutto era sospeso nel suo dolore.
Alla fine l’impossibilità dell’intervento d’aiuto immediato è implosa dentro, a causa dello sforzo di restare concentrata sulle cose da fare. Ma di notte quei bambini li avevo tutti davanti, ai piedi del letto, Ruhune in testa. Camminavano piano, alcuni erano così piccoli che stavano imparando a farlo in quel momento! Affondavano nel fango e ogni volta che sembravano cedere, io cadevo sulla loro scia.
È giunto il mattino di quella notte, l’ultima del viaggio. Il mio sguardo era trascinato dal ritmo verde del paesaggio, mentre ci dirigevamo verso l’aeroporto di Kigali e il Congo abbracciava il Rwanda, dimenticando le violenze degli uomini.
Ero stanca, ma rinvigorita da una felicità inattesa. Scrivevo confusamente, su un tovagliolino dell’Ethiopian Airlines, echi di ciò che avevo vissuto. Mi accorsi allora, nell’attesa del decollo, che i miei sogni erano già alti. Mostrai a don Armando la foto di Ruhune e in un attimo fu come se fosse vicino a noi, a chiederci: «Perché?». «Siamo venuti qui per dargli risposte concrete», mi disse don Armando, «e insieme lo faremo».
Era la frase che aspettavo. Fuori il sole faceva l’amore con la laterite, declinando tutti i toni del rosso esistenti. Dentro il mio cuore era calmo. Avrei dato i semi della mia esperienza al “don” e ai volontari dell’associazione Bhalobasa, loro li avrebbero trasformati in pane e futuro per Ruhune e gli altri bimbi. Sapevano farlo, nel tempo che non avevano ma che trovavano, per sorprendere la povertà con una presenza desiderata e amorevole, mai pietosa.
Era notte, ormai. Intonavo le canzoni che mi avevano insegnato le suore pensando: «Presto canterà anche Ruhune».

Si può usare la Carta docente per abbonarsi a VITA?

Certo che sì! Basta emettere un buono sulla piattaforma del ministero del valore dell’abbonamento che si intende acquistare (1 anno carta + digital a 80€ o 1 anno digital a 60€) e inviarci il codice del buono a abbonamenti@vita.it