Architetto, costretto da una malattia sulla sediaa rotelle, rispondendo a domande concrete di suoi “compagni di disabilità” ha finito per inventarsi una professione: il disability manager, ovvero colui che progetta come rendere accessibili alle persone con problemi fisici la città e gli edifici pubblici, in particolare gli ospedali.Lo incontriamo presso la Fondazione Don Gnocchi di Milano. Cielo limpido, fuori, mentre dentro si sta svolgendo una lezione per disability manager, una nuova figura professionale che ha lo scopo di rendere accessibile la città alle persone disabili, cioè garantire che i trasporti, gli edifici, le iniziative culturali siano fruibili. Una trentina di ragazzi in aula, esempi concreti che scorrono sulle slide, e Rodolfo Dalla Mora in ultima fila ad ascoltare. Un cenno dello sguardo per darci appuntamento fuori in corridoio. Pochi secondi per le presentazioni e subito Rodolfo comincia il suo racconto. «Prima cosa: mi son veneto, ansi, venesian doc» ci dice con orgoglio. Cavallino-Treporti, per la precisione, un’oretta in vaporetto da Piazza San Marco. E lì, Rodolfo ha incontrato e coltivato da subito la sua passione per l’architettura. Le medie alle “Zattere” presso il Pisanelli, poi l’istituto tecnico industriale con indirizzo edilizio a San Donà di Piave, e i tre anni di specializzazione a Portogruaro. E poi la disabilità, incontrata da ragazzo. «Col tempo mi sono reso conto che avevo sempre più difficoltà a camminare» confessa Rodolfo. La diagnosi: miopatia alle ginocchia. «La cosa bella di questa malattia, se posso dirlo, è che te ne rendi conto poco alla volta. Non è stato traumatico».
Un approccio alla vita non da tutti…
Non so, forse perché ho sempre avuto una visione diciamo “libertaria”. Poi ho avuto due genitori fantastici, che malgrado le ristrettezze economiche, ci hanno lasciato sempre l’opportunità di sperimentare e di scegliere.
Già lavorava, ma ha scelto comunque di continuare e fare architettura.
Guardi, da alzarsi alle 5 e mezza per andare a Portogruaro a 70 chilometri da casa, sono passato a prendere il vaporetto per Venezia: praticamente una gita fuori porta. Ma devo dire che quello che ho imparato all’istituto tecnico è stato fondamentale. Tuttora io mi calcolo quanto è necessario per un progetto, vado con la carrozzina in cantiere, verifico, mi sporco le mani.
Nel frattempo ha fondato anche il “Centro Prua”, di cosa si occupa?
Faccio una premessa. Ci sono delle disabilità evidenti come la mia, ma ci sono anche quelle che io chiamo di tipo “carsico”: un cardiopatico o un ipovedente hanno disabilità che da un punto di vista progettuale spesso non vengono prese in considerazione. Faccio un esempio: la legge dice che una rampa deve avere una pendenza massima dell’8%. Ora, nulla osta che tu la faccia del 5%. E agevoli altri disabili. Non solo le carrozzine, ma anche il cardiopatico. Il Centro Prua si occupa di tutto questo. Cioè di quello che chiamiamo progettazione per l’utenza ampliata.
Un giorno, in ospedale a Motta di Livenza, in provincia di Treviso, però è successo qualcosa…
Ero finito lì perché ero caduto. Mi sono fatto due mesi a letto. Mentre ero in ospedale ho preso contatto con la situazione di molti che, una volta tornati a casa, si trovavano ad affrontare un ambiente non adeguato alle proprie disabilità. Allora, sai come funziona… «Ah, ma lei è architetto?» mi dicevano. E così, prima a uno poi all’altro, mi sono messo a dare dei consigli ai miei vicini di letto su cosa e come fare per migliorare la casa. Il tutto è partito così. Ho fatto una proposta alla dirigenza dell’ospedale: offrire consulenza gratuita per questo tipo di problemi. Cacchio! Dopo poco mi sono reso conto che i pomeriggi messi a disposizioni non bastavano più. Abbiamo aumentato le ore. E pian piano, nel 2009, il mio impegno si è trasformato in un lavoro a tempo determinato part-time. Oggi sono responsabile dello “sportello senza barriere” dell’ospedale di Motta di Livenza e di quello di Treviso.
Oltre la consulenza che attività fornisce lo sportello?
Organizziamo convegni, spesso con le associazioni che si occupano di disabilità. E poi non prestiamo consulenza solo ai pazienti o ai cittadini che lo chiedono. Ma anche alla struttura ospedaliera stessa e, per esempio, per migliorare la fruibilità del sito web dell’ospedale.
Qual è secondo lei il segreto del successo di questa professione?
Credo sia stato e sia tuttora quello di inserirsi a pieno titolo nella filiera della riabilitazione. Insieme al fisiatra, al medico, allo psicologo, ora c’è anche il disability manager. Tanto è vero che sono stato chiamato dall’Università Cattolica per parlare proprio questo in occasione del master.
Come ti poni davanti a un nuovo progetto che ti hanno commissionato?
Oggi in generale l’accessibilità per molti significa avere ausilii per qualsiasi cosa. Ma non è vero. Si riempiono le case di tutto e di più. Quindi, intanto, bisogna capire la disabilità della persona, quale è la situazione in cui vive, e non solo dal punto di vista architettonico, ma anche e soprattutto relazionale. C’è ancora purtroppo invece la mentalità di chiedere ogni tipo di aiuto meccanico, quando in realtà basta molto meno. Altrimenti il rischio è davvero quello di chiudersi in casa davanti al computer.
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