Cinema
Io Capitano, una fiaba che non va vista con i nostri occhi
L’opera di Garrone candidata agli Oscar non parla a noi europei. Noi siamo spettatori tre volte: di un racconto, di una storia vera, ma soprattutto di come i migranti africani guardano loro stessi
Io, capitano del regista Matteo Garrone è entrato nella cinquina dei film internazionali degli Oscar. Il film vincitore del Leone d’Argento alla Mostra del cinema di Venezia può quindi puntare a un premio fra quelli che saranno premiati nella notte del prossimo 10 marzo.
Io Capitano sta al cinema come la notte sta alle fiabe. Gli occhi con cui va vista la traversata di Seydou non sono quelli delle nostre agognate rivoluzioni politiche per un’apertura delle frontiere né tantomeno quelli della paura dei sovranisti, che blaterano di invasione e sostituzione etnica. La fiaba di Seydou va letta nel corso della notte del Mediterraneo solo con gli occhi dei milioni dei Seydou che si mettono in moto. Raggirati, imbrogliati, umiliati, determinati, leggeri, sono gli ultimi di questo mondo, e sono in marcia. Senza armi e senza rabbia, per ora, cercano solo vite migliori di quelle che lasciano. La loro storia d’amore si chiama “futuro” ed i loro baci appassionati sono speranze, le loro gesta eroiche sono avventure rocambolesche fino al ridicolo, in mezzo ad orchi e fate, pericoli indicibili ed improvvise carezze.
La fiaba di Seydou va letta nel corso della notte del Mediterraneo solo con gli occhi dei milioni dei Seydou che si mettono in moto cercando vite migliori di quelle che lasciano
Io Capitano non parla a noi europei seduti in sala, noi siamo spettatori tre volte, perché seguiamo un racconto filmico-poetico, assistiamo all’evolversi di una storia vera dal finale sempre incerto e possiamo vedere come i migranti stessi si guardano. Parla ai milioni di ragazzi e ragazze che ce l’hanno fatta, che hanno attraversato l’inferno ed ora sono salvi. Noi che guardiamo il film e che veniamo da comode, ricche o povere, case italiane non abbiamo che da piangere, arrabbiarci, applaudire per ciò che accade sullo schermo, ma è un mondo troppo lontano da noi. Quando la barca arriva a destinazione l’Europa neanche si vede, l’Europa nuova è già iniziata su quel battello di disperati che si salvano la vita da soli, nel silenzio assordante del mare.
Del vecchio Continente si sentono solo gli elicotteri, si vedono le stazioni petrolifere tra la Libia e Lampedusa, si ascoltano le giustificazioni via radio, ma la bandiera blu con le dodici stelle è scolpita negli occhi spaventati e gentili di Seydou e si chiama “sogno”. Il ragazzo che porta per mano e sempre con sé il ricordo di una donna morta nel deserto, replicando la passeggiata di Chagall, è il futuro che arriva, con o senza di noi.
Io capitano. Perché l’Africa, come diceva san Daniele Comboni, la salvano solo gli africani e noi spettatori di qua dalla riva non possiamo che fare il tifo per loro, per i milioni di Seydou.
Vorremmo fraternamente e paternalisticamente non vederli in moto, vorremmo che sapessero quanto bella è quella vita semplice vissuta nei villaggi del Senegal raccontata senza fronzoli e pietismo da Garrone, una vita lontana dalle distopie a cui sono sottoposti tanti nostri adolescenti e che vivono tante nostre famiglie; come grilli parlanti vorremmo salterellare nel deserto per dire a Seydou di tornare indietro, ma Seydou è più forte della nostra cortesia ed affronta la balena, fino a diventare un nuovo uomo.
Accogliere è solo il verbo minimo; quando Seydou arriva sulla nostra riva l’unico gesto che meriterebbe questo ragazzo sarebbe quello che abbiamo fatto al cinema: applaudirlo
Accogliere è solo il verbo minimo; quando Seydou arriva sulla nostra riva l’unico gesto che meriterebbe questo ragazzo sarebbe quello che abbiamo fatto al cinema: applaudirlo. E poi abbracciarlo. Non sappiamo se gli andrà bene o male qui tra le dodici stelle del vecchio continente che sono divenute trenta, come non sappiamo quale futuro attende i nostri ragazzi fuori dalle scuole. Sappiamo solo che, quando un ragazzo sogna e lotta per qualcosa, è un buon segno, vuol dire che il mondo non sta invecchiando male come sembra.
Io capitano è il nuovo Withman, è il nuovo che avanza e non ha bisogno di nessuna “tolleranza”, solo di molta, tanta poesia nei nostri sguardi, e di altrettanta buona politica nel nostro presente.
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