Cultura

Io canto in francese,bprego in arabobe sogno in italiano

Una vita multilingue «Ma quale sarà la mia lingua madre?»

di Redazione

«Ma la cosa a cui penso tutti i giorni è con quale lingua comunicare con mio figlio che porto in grembo. Infatti ogni parola va oltre la banalità
del quotidiano e porta in sé qualcosa di straordinario…» di Ouejdane Mejri Q uando le persone scoprono che sono poliglotta, mi chiedono spesso in quale lingua penso e mi viene spontaneo di dire che lo faccio in tante delle mie lingue madri. Pensandoci bene, io lavoro in una lingua, amo in un’altra, mi arrabbio in un’altra ancora. Canto in francese. Prego in arabo. Sogno in italiano. Però c’è una domanda che mi sono fatta in questi giorni e che continua a tormentarmi ed è «In quale lingua soffro?». Se mai troverò risposta a questo mio quesito, capirò magari quale sia la mia vera lingua madre.
Ognuna delle lingue che amo parlare, porta nella sua melodia, nei suoi vocaboli con i loro più sfumati significati, la memoria profonda e l’identità di un popolo. Passando dall’arabo all’italiano non si attraversa solo un mare di parole ma si esprimono diversamente le paure e le speranze, i ragionamenti e le fantasie. Se devo essere fatalista, allora commuto al tunisino ma quando devo essere concisa e diretta adotto subito l’italiano. Le mie superstizioni sono frutto di un pensiero in arabo ma nelle esclamazioni di gioia da condividere con gli altri mi scappano automaticamente in italiano. Eccezione fatta per lo «Yuyu», una musica tradizionale araba che accompagna la mia felicità.
Ma oggi, la cosa a cui penso tutti i giorni è con quale lingua comunicare con mio figlio, che porto ancora in grembo. Tramandare le mie tradizioni a mio figlio (nb: mio marito è italiano) vuol dire anche raccontargliele nella mia prima lingua madre, così come me le aveva raccontate mia nonna materna le cui parole pronunciate in arabo riuscivano a creare un’atmosfera incantevole. Spiegargli il comportamento di un suo compagno di banco italiano credo che sarà affidato alla lingua che avrà accompagnato l’accaduto; è un po’ come guardare le news sul canale del Paese in cui è successo l’avvenimento, si rischia meno di contraffare i fatti.
Ogni parola pronunciata e scelta tra le lingue che si conoscono va oltre la banalità del quotidiano e porta in sé qualcosa di straordinario, una potenza d’espressione che potrà essere percepita nella sua più sottile sfumatura da chi riceverà il messaggio. Chi parla può anche intralciare la sua stessa parola e interrompersi e dare senso anche al silenzio. Anche se per tutti tacere significa acconsentire e il silenzio è d’oro, l’assenza di parola esprime spesso atteggiamenti diversi anche rispetto alla lingua nella quale si stava parlando. Un arabo silenzioso per esempio non è quasi mai disdegnoso o apatico, ma spesso non sa come esprimere il suo dissenso o la sua rabbia.
La cultura di un Paese è presente nelle canzoni popolari, nei proverbi e nei modi di dire, nelle battute ma anche nelle parolacce. Non sarà un compito facile insegnare a mio figlio queste sfumature di una lingua che non userà con i compagni di scuola, ma mi dico che se la mia relazione con lui non sarà fatta solo di scambi semplicistici – e spero che non lo saranno -, allora avrò modo di comunicargli l’anima della lingua araba insieme a tutte le ricchezze della nostra civiltà arabo-musulmana.
Una lingua che suo papà non conosce ancora, che non sarà una barriera in famiglia ma un ponte verso i nonni e la mia famiglia in Tunisia e spero un motivo d’orgoglio per questo bambino che sarà, per forza degli eventi, frutto di un brassage culturale per me meraviglioso. Mi piacerebbe leggergli i versi del grande poeta popolare italiano, Ignazio Buttitta, quando nel suo siciliano scriveva: «Un populu /diventa poviru e servu /quannu ci arrobanu a lingua / addutata di patri: / è persu pi sempri. / Diventa poviru e servu, / quanno i paroli non pigghianu paroli / e si manciano tra d’iddi. / Mi nn’addugnu ora, / mentri accordu a chitarra du dialettu / ca perdi na corda lu jurnu»;(«un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua avuta in dote dai padri: è perduto per sempre. Diventa povero e servo quando le parole non figliano parole e si mangiano tra loro. Me ne accorgo ora, mentre accordo la chitarra del dialetto che perde una corda al giorno».

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