“Ritenete il vostro patrimonio adeguato per far fronte ai futuri investimenti?” La risposta del campione rappresentativo non lascia spazio ad alcun dubbio: le imprese sociali italiane si sentono adeguatamente dotate in termini di patrimonio. Alla faccia di chi invece le considera fragili e poco dotate di risorse – economiche e non – per far fronte alle loro esigenze di sviluppo. I giudizi divergono: o si tratta di imprese scarsamente efficienti e ancora meno consapevoli delle importanti sfide che le attendono (e che magari le stanno già impegnando), oppure non si sono ancora ben messe a fuoco le peculiarità del loro modello di business e quindi gli indicatori tradizionali mutuati dal for profit – il livello di capitalizzazione ad esempio – non fanno che evidenziarne i limiti strutturali. Dirimere la questione è tutt’altro che accademia, anche perché nel frattempo si assiste alla discesa in campo di un nuova nuova fonte di finanziamento oltre alle donazioni e ai corrispettivi per la vendita di beni e servizi: i fondi sociali d’investimento. Nel Regno Unito è già una realtà che ha già piazzato qualcosa come 500 milioni di sterline negli ultimi anni, ma anche in Italia si stanno progettando strumenti come i bond sociali dedicati, se non alle imprese sociali in senso stretto, ad alcuni ambiti di attività in cui già operano o potrebbero operare più numerose (i servizi educativi e sanitari ad esempio). Per non parlare della nuovissima direttiva della Commissione europea che già dal titolo – social business initiative – fa ben capire qual’è la nuova direzione strategica delle istituzioni comunitarie per sostenere lo sviluppo del settore: utilizzare le risorse pubbliche per sostenere la costituzione e il cofinanziamento di fondi privati d’investimento specializzati (anche ricorrendo al mercato borsistico). Proprio oggi il commissario Barnier ha addirittura lanciato un marchio di qualita’ per i fondi dedicati al social business. Se l’offerta di queste risorse si sta strutturando in grande stile, viene da chiedersi se davvero interesserà una domanda, quelle delle imprese sociali (almeno quelle che oggi si conoscono), che invece sembra molto orientata al fare tutto in casa, puntando ad esempio sull’autofinanziamento presso gli stakeholder più ravvicinati (soci, lavoratori, volontari, utenti). Il cambio di prospettiva, anche in senso gestionale, è di notevole portata e i primi a saperlo sono proprio gli operatori finanziari. Qualche giorno fa, ad esempio, un’agenzia inglese che intermedia le charities con gli operatori di social investment ha pubblicato una guida che è in buona parte dedicata a mettere in luce i benefici ma soprattutto i rischi che si possono generare anche per grandi organizzazioni volontaristiche nel momento in cui decidessero di accedere a queste nuove forme di finanziamento di tipo equity. A scanso di equivoci, si ripete più volte che “is important to have a plan for repayment” onde evitare “a real financial pressure”. Insomma i consigli della guida sono due: 1) inserire la finanza nel portafoglio di risorse su cui l’organizzazione può già contare (donazioni o quote di mercato che siano) e 2) individuare un investimento specifico in grado di generare la giusta redditività (per quanto si tratti di capitali “pazienti” e che rinunciano, almeno in parte, a massimizzare il rendimento). Non a caso la best practice presentata a titolo di esempio riguarda una charity che ha sottoscritto un social impact bond da ben 20 milioni di sterline (!) per ampliare e qualificare le attività di fundraising donativo e per aprire (o rafforzare) la sua catena di charity shop. Chiaro no?
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