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L'esperto Jonathan Holslag: «Pechino ha capito che il futuro del pianeta si gioca nel Continente»

di Redazione

La Cina in Africa. È l’ultimo atto di una mondializzazione che vede l’Occidente alle prese con un concorrente inatteso e nel contempo spietato nel muovere le sue pedine in un continente, quello africano, dato troppo spesso per spacciato. Pechino ha capito prima di europei e americani che nel XXI secolo la lotta per la spartizione delle risorse energetiche e naturali del pianeta non si giocherà soltanto nel Golfo arabo o in Amazzonia. Da Algeri a Città del Capo, da Djibuti a Dakar, la presenza dei cinesi in Africa è una realtà dalle conseguenze politiche, economiche e sociali enormi. E sul versante dei diritti umani? Finora Pechino non ha mai fatto mistero della sua volontà di non intromettersi negli affari interni degli Stati africani. La parola d’ordine è: «Fare business e basta». Però qualcosa sta cambiando. Almeno questa è la convinzione di Jonathan Holslag, ricercatore presso la Brussels Institute of Contemporary China Studies e noto negli ambienti istituzionali della capitale europea per le sue analisi sui rapporti tra il regime cinese e l’Africa. Per Holslag, «Pechino sta prendendo coscienza che la sua strategia di non-ingerenza rischia di alimentare la corruzione e danneggiare le politiche di buon governo indispensabili per chi vuole fare affari sul continente. Ma la strada è ancora lunga».
Vita: L’Unione europea spera di accorciarla promuovendo un dialogo trilaterale Ue-Cina-Africa che spinga Pechino a prendere maggiormente in considerazione i diritti umani?
Jonathan Holslag: Europa e Cina hanno due visioni opposte sulle relazioni con l’Africa. La prima vincola i suoi aiuti al rispetto dei diritti umani e della good governance. La Cina no. In mezzo, ci sono gli africani, divisi tra due modelli di partnership che rischiano di determinare il futuro del continente. Molti temono che nel momento in cui le élites africane decideranno di seguire Pechino, l’Africa sprofonderà di nuovo nella violenza e nella dittatura. Intanto è da ricordare che in Africa non ci sono soltanto i modelli europeo e cinese. Ormai il continente attrae Paesi come l’India, il Brasile, il Giappone, gli Stati Uniti, e ora anche la Russia. Per tutti l’Africa rappresenta una miniera di risorse facilmente accessibili. Pensiamo a Washington e al petrolio: la possibilità di svincolarsi dalle pressioni dei Paesi arabi attraverso alleanze strategiche con la Guinea equatoriale è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. E mai come oggi, con il petrolio alle stelle, l’Africa costituisce una valida alternativa. Tornando ai tentativi di Bruxelles di ammorbidire le posizioni di Pechino sui diritti umani nei Paesi africani, ritengo che l’Ue sia sulla strada sbagliata.
Vita: Perché?
Holslag: Alla luce del loro passato coloniale, gli europei non sono nella condizione di dare lezioni a nessuno sui diritti umani. Quante volte ho sentito dire che dittatori come il guineano Lansana Conté o il gabonense Omar Bongo non erano stati creati dal regime cinese, ma dalla Francia. Non a caso, Pechino sfrutta le ferite aperte degli africani per battere sul tasto del colonialismo. Ma non credo che saranno queste accuse a mettere in difficoltà l’Unione europea. Il problema è un altro: da un lato c’è la Cina, con un regime forte, portatore di una strategia chiara e definita sul continente africano; dall’altro c’è un’istituzione internazionale come l’Ue che lancia messaggi coerenti agli africani, ma dietro la quale si muovono interessi nazionali divergenti fra loro. Di fronte a tanta indisciplina, alcuni regimi hanno fatto la loro scelta.
Vita:Con quali conseguenze per i diritti umani?
Holslag: Finora negative. Ma non è detto che le cose debbano continuare così. A mio avviso chi riuscirà a cambiare le carte in tavola non saranno gli europei, bensì gli stessi africani. Qua e là stanno emergendo i primi segni di disagio nei confronti della strategia cinese di non-ingerenza. In Angola e Guinea equatoriale Pechino ha dovuto fare fronte a dei casi di corruzione che l’hanno spinta a riconsiderare la sua scelta di sostenere solo chi sta al potere. Così la diplomazia cinese si è decisa a dialogare con tutte le élites di un Paese. È un passo avanti: piccolo, ma nella direzione giusta.


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