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Inventarsi pacifisti:sul sangue del Kosovo
KOSOVO. Chi predica e chi muore
“Quando la parola passa alle armi, nessuno può più dirsi innocente”, ha giustamente avvertito Walter Veltroni in uno dei pochi interventi degni di questo nome nel penoso dibattito alla Camera del 26 marzo. Nessuno può dirsi innocente, è vero, soprattutto riguardo le tragedie che da dieci anni si consumano nei Balcani, ed è perciò che in questo editoriale non vogliamo occuparci di chi in questi giorni non perde microfono pur di proclamare la sua presunta innocenza. Una presunta innocenza che peraltro nell?ultimo decennio ha già causato nei Paesi della ex Jugoslavia troppi orrori e fosse comuni. A Srebrenica, a Tuzla, a Sarajevo, a Brcko, a Bijeljina, a Goradze, a Banjia Luka, a Omaska per un totale, ricordiamolo, di 250 mila morti, 2 milioni e 500 mila profughi e un costo per la comunità internazionale di 90 mila miliardi. Per essere chiari e fare qualche nome ci riferiamo, per esempio, alle ultime tragiche trovate di Bossi o all?improbabile grammatica di Mastella, e ancora all?iperattivismo pacifista di Armando Cossutta e di sua figlia Maura (una concezione della parentela in politica in tutto simile a quella di Milosevic la cui moglie è capo del partito e il cui fratello è ambasciatore a Mosca) che pare abbiano scoperto il problema Kosovo al primo attacco aereo Nato a una postazione militare serba. Dov?erano costoro quando a Pristina gli amici di ?Operazione Colomba? manifestavano per la pace e contro la pulizia etnica in assoluta solitudine? Sanno costoro che l?Italia nel 1998 ha accolto solo 380 richieste di asilo politico rispetto alle quasi 5000 depositate (in gran parte da curdi e kosovari)? Chi ha rilanciato gli appelli dei veri pacifisti lo scorso anno, quale uomo di partito, quale mass media? E perché costoro oggi organizzano manifestazioni pacifiste, anche se spesso non pacifiche, invece di mobilitarsi per risparmiare almeno qualche sofferenza al milione di profughi kosovari in giro per i Balcani e per l?Europa, magari con una raccolta fondi, oppure con una mobilitazione straordinaria di mezzi e uomini? Sgombrato quindi il campo da chi, anche in momenti di grande sofferenza e di angoscia, riesce a trasformare la politica in una piccola bega ( e su questo la crisi ci ha davvero chiarito le idee), veniamo alle questioni serie.
1) In Kosovo non c?è una guerra civile: c?è un?operazione di pulizia etnica contro un piccolo popolo di meno di 2 milioni di persone, al 90 per cento di etnia albanese iniziata non il 25 marzo 1999 ma nel lontano 1991 e che negli ultimi due anni ha avuto un?escalation inarrestabile. Già nel 1993 a Berna si tenne una sessione della Corte Penale Internazionale sulla ex Jugoslavia sulla violenza e gli eccidi nel Kosovo. Da allora le documentazioni si sono moltiplicate: si vedano i rapporti di Amnesty international , o quelli recenti dei verificatori Osce. La violenza serba, secondo queste… testimoninaze, ha prodotto dal 1991 ad oggi la fuga di quasi 500 mila kosovari; la morte di 2500 persone, la violenza fisica documentata in almeno 35 mila casi; una migrazione interna di altri 150 mila. La politica italiana ed europea ha l?enorme responsabilità di essere stata inerme e vile di fronte a questo dramma. Diffidate da chi nasconde questa verità e si proclama innocente.
2) Nel giugno 1995 solo questo settimanale ebbe l?ardire di pubblicare l?appello rifiutato da altri giornali, a noi girato da Adriano Sofri, di un vero e laceratissimo pacifista come Alex Langer al Consiglio di Sicurezza Onu che recitava così: «Se anche dopo questo non agite con la forza come unico mezzo legale rimasto per proteggere un popolo innocente dai crimini serbi di Karadzic, allora voi eravate e restate dalla parte del male, del buio, del fascismo». Pochi giorni dopo Langer scriverà ancora: «Si può decidere che il diritto internazionale deve semplicemente abdicare, oppure si può decidere che un ordine vincolante per tutti deve farsi rispettare. Sarebbe preferibile se ad intervenire fossero i soldati di pace dell?Onu: nelle condizioni attuali, tuttavia, l?Onu deve chiedere a chi può, alla Nato in buona sostanza, di svolgere tale compito». Un sentimento che abbiamo visto riverberare nella tormentata dichiarazione di Kofi Annan del 24 marzo notte: «In talune circostanze l?uso della forza appare come l?unica soluzione possibile. Qualora il coinvolgimento dell?Onu diventa impossibile l?Onu può fare affidamento su organizzazioni regionali per la sicurezza come la Nato». Una dichiarazione quasi censurata nei dibattiti sui media italiani. Di queste ansie, di questi tormentati inviti all?uso della forza di chi per anni ha cercato soluzioni di pace e ha speso la propria vita per testimoniare a popolazioni oppresse che non erano abbandonate, nessuno può permettersi di prescindere. Chi lo fa è un pacifista dell?ultim?ora. Diffidate.
3) Il problema vero è oggi capire se una azione militare come quella innescata dalla Nato è utile oppure no a fermare le nefandezze delle milizie serbe e a salvare quasi 2 milioni di persone da un disastro umanitario. Su questo punto tutti i dubbi sono leciti, legittimi. L?opinione che oggi (30 marzo) abbiamo raccolto dagli operatori di pace che stanno ai confini del Kosovo è che l?operazione militare aerea rischi di essere controproducente. Per questo non possiamo non sperare in un proseguimento di tutti i tentatativi diplomatici possibili e pregare perché qualcuno approdi a qualche risultato. E chiederci, infine, se una tregua unilaterale da parte dei Paesi della Nato per il 4 e 5 aprile non dia ancora più forza a quei Paesi che hanno giustificato un intervento militare con ragioni umanitarie e di sicurezza per l?intera Europa.
Attenti, poi, a coloro che non si spenderanno per aiutare in tutti i modi possibili i profughi e continuerà ad impegnarsi solo nelle sue beghe policanti. ?
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