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Intervista a Marco Revelli. Caro Sofri, gli uomini sono nuovi, i simboli no

"Adriano ha ragione: quei militari sono uomini di pace. Ma la divisa che portano pesa. Inutile nasconderselo".

di Giuseppe Frangi

Per Marco Revelli restano sempre il sacro e il profano. Far saltare le differenze tra volontario civile e militare significa, gaddianamente, combinare un ?pasticciaccio brutto?. Certo i fatti di Nassiriya hanno fatto saltare tanti muri, hanno accorciato le distanze. Racconta Revelli: “Me ne sono reso conto con il pubblico numerosissimo che segue le lezioni di politica organizzate a Torino da don Antonio, missionario della Consolata. C?era un rispetto davvero sentito per le persone, pur con un giudizio storico di condanna dell?intervento”.
Vita: Quindi Sofri ha ragione a dire che è venuto il momento del dialogo?
Marco Revelli: Con lui concordo su una cosa: che le biografie dei carabinieri e dei soldati a Nassiriya sono sorprendenti. Sono testimonianza di una trasformazione antropologica. Perché queste vite sono molto lontane da quelle che intendiamo come militari in senso classico. Hanno alle loro spalle pratiche e un tessuto esistenziale che li fa in fondo molto simili ai ragazzi che sfilavano con la bandiera della pace. Ma il mio accordo con Sofri finisce qui.
Vita: Perché?
Revelli:Dobbiamo capire qual è la natura nuova della guerra, il suo carattere mimetico, che spesso annulla i confini tra la pace e il conflitto, come hanno amaramente sperimentato i nostri militari a Nassiriya: credevano di essere in una situazione di pace, pur precaria, e invece sono stati inghiottiti dalla guerra. E questo perché accade? Perché quella novità antropologica non ha trovato simboli adeguati che la rappresentassero.
Vita: Si spieghi?
Revelli: La guerra trasforma in simboli tutte le istituzioni che entrano nel suo raggio. è quella che io chiamo la ?viscosità? della guerra: anche istituzioni come la Croce Rossa e l?Onu hanno pagato sulla loro pelle questa ambiguità. Invece il volontario che entra nei territori sconvolti dall?odio deve essere neutrale. Non deve avere né bandiere, né divise, né armi. Il militare invece rappresenta comunque uno Stato, e ne subisce le conseguenze. Soprattutto il volontario ha superato la logica amico-nemico.
Vita: Anche i militari di Nassiriya in fondo non avevano additato nessuno a nemico?
Revelli: Questo è vero. E mi spiace che la categoria amico-nemico sia stata invece reintrodotta da Sofri, in un contesto generale in cui la maggioranza delle persone ha dimostrato di non farsene un problema. Ma questo porta alla questione per me cruciale.
Vita: Cioè?
Revelli: Esperienze nuove come quelle che abbiamo descritto, vengono rinchiuse in involucri vecchi, come l?esercito, che è nato per l?uso specializzato della forza. Chiedo a Sofri se non sia invece l?ora di immaginare forme istituzionali nuove, più conformi alle biografie personali da cui siamo partiti. Ad esempio delle forme che favoriscano la crescita dei professionisti dell?intervento umanitario, secondo i dettati della nonviolenza. Altrimenti si resta in una prospettiva irenica. Questa per me è la prova per verificare se quello che è stato detto obbedisce a un disegno sincero oppure no. Non dimentichiamoci che due giorni dopo Nassiriya si è dimesso Mario Calamai dall?autorità provvisoria: lo ha fatto perché ha giudicato drammatica e sbagliata la gestione del dopoguerra da parte di quelle forze di cui l?Italia è alleata.
Vita: Un?ultima domanda. La figura del kamikaze non s?identifica con il nemico?
Revelli: Il kamikaze è la forma più estrema e più disperata della guerra, tanto che ognuno ne è una possibile vittima. Ma non basta autoassicurarci pensando di avere davanti un?entità diabolica, disposto a cancellarsi pur di cancellarti. La domanda che mi riempie di dolore e di disperazione per me è questa: com?è possibile parlargli. Io so di poter parlare al soldato isareliano, tant?è che molti di loro disertano dalla guerra di Sharon. Ma al kamikaze come si parla? è questa la domanda cui prima o poi dovremo rispondere.

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