Lo scorso 31 agosto le agenzie internazionali ci hanno informato che il governo russo ha deciso di inaugurare, questo settembre, un monumento al centro di Mosca dedicato al generale Mikhail Kalashnikov, l’inventore del fucile mitragliatore AK-47, che prende il suo nome. Un monumento alto 7 metri, costato circa 35 milioni di rubli, ossia 503mila euro. Il generale Kalashnikov era morto nel 2003 a 94 anni, dopo aver regalato all’umanità il fucile mitragliatore più diffuso al mondo, adottato da 80 eserciti e da tutte le bande criminali e terroristiche. Un uomo, un militare tra i più decorati dell’Unione Sovietica prima, dalla Russia di Putin dopo, la cui statua è stata voluta fortemente dalla Società storico-militare russa, ed affidata – leggiamo – allo scultore Salavat Shcherbakov, che ha già creato imponenti monumenti all’imperatore Alessandro III ed al principe Vladimir. Un monumento solenne al creatore dell’arma che dal 1947 ha fatto – probabilmente – più vittime in assoluto sul pianeta e continua ad essere riprodotta senza sosta.
Qualche settimana dopo, il 16 settembre, il Corriere della Sera ha scoperto che sempre nella periferia della capitale russa è morto, già da alcuni mesi, nell’anonimato – come era sempre vissuto – un altro ufficiale sovietico: Stanislav Petrov, l’uomo che il 26 settembre del 1983 aveva salvato l’umanità dalla catastrofe atomica. E’ una storia praticamente sconosciuta quella del tenente colonnello Petrov che quella notte di settembre era di turno – per la sostituzione di un collega – ai calcolatori che sorvegliavano lo spazio aereo sovietico, quando sullo schermo si accesero un certo numero di spie luminose: significava che un grappolo di missili nucleari USA erano in arrivo. Il protocollo prevedeva l’immediato contrattacco massiccio da parte sovietica, che avrebbe provocato un altrettanto attacco massiccio statunitense. Eravamo nel pieno della “guerra fredda”, con i falchi Ronald Regan e Jurij Andropov a capo della Casa Bianca e del Cremlino, e solo venticinque giorni prima, il primo settembre, altri militari russi – seguendo le procedure –avevano abbattuto un jumbo jet coreano con 269 persone a bordo che era entrato nello spazio aereo dell’Urss.
Stanislav Petrov, invece, non seguì il protocollo, usò l’intelligenza anziché la procedura, non delegò alle gerarchie, ma pensò con la sua testa. Pensò che si potesse trattare di un’avaria del sistema e non avviò alcun dispositivo di risposta. Interruppe, assumendosene la responsabilità, gli automatismi della follia che avrebbero scatenato l’apocalisse. Quella notte il tenente colonnello salvò l’umanità, ma non ebbe alcuna medaglia, anzi fu severamente redarguito per il suo comportamento anomalo e poi accantonato. E dimenticato. E’ morto in solitudine a 78 anni. Non si sa bene quando. Al contrario di Kalashnikov, Petrov non avrà un monumento nel centro di Mosca.
Tuttavia, sulla spinta dei movimenti per il disarmo atomico, le Nazioni Unite nel 2014 hanno dedicato proprio il 26 settembre – anniversario dello scampato pericolo – alla Giornata per l’eliminazione totale delle armi nucleari. E il 7 luglio di quest’anno è stato adottato, finalmente, dall’Assemblea generale dell’ONU il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari. Per un riflesso automatico e un ordine di scuderia, tutte le potenze atomiche e i Paesi della NATO (esclusa l’Olanda, che ha votato contro) non hanno partecipato al voto. Ma ora possono, e debbono, ratificarlo. A cominciare dall’Italia. Di fronte ai nuovi falchi – Donald Trump, Kim Jong Un, Vladimir Putin – che hanno in mano le sorti dell’umanità, e fanno i monumenti agli imprenditori di morte, è necessaria una assunzione diffusa di responsabilità, che interrompa definitivamente gli automatismi della follia. Come quella notte del 26 settembre del 1983.
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