Economia

Interrogativi fiscali per il nostro tempo

Ci vorrà del tempo prima di riorientare le politiche fiscali partendo dal contesto che si è venuto a configurare sotto l’incalzare della globalizzazione e della finanziarizzazione. Nel frattempo, per far fronte al crescere delle disuguaglianze e ai rischi politici che ne conseguono, sembra ragionevole attenersi a due principi-guida

di Christian Marazzi

Ci vorrà del tempo prima di riorientare le politiche fiscali partendo dal contesto che si è venuto a configurare sotto l’incalzare della globalizzazione e della finanziarizzazione. Nel frattempo, per far fronte al crescere delle disuguaglianze e ai rischi politici che ne conseguono, sembra ragionevole attenersi a due principi-guida.

In primo luogo, non si fa socialità con la fiscalità, il che significa ad esempio che non si attenuano le disuguaglianze con deduzioni fiscali a tappeto, come si è fatto in Ticino per troppo tempo. Con la scusa di proteggere il ceto medio, infatti, abbiamo oggi una panoplia di deduzioni che, abbassando il reddito imponibile, finiscono per favorire i contribuenti più ricchi (a causa della curva delle aliquote, più alte per i redditi imponibili più elevati). Inoltre, qualsiasi proposta di riforma fiscale dovrebbe rispettare il principio dell’unità della materia, altrimenti si mettono i cittadini chiamati a votare progetti di riforma social-fiscale in situazione di scelta a somma zero o negativa (se vuoi questo, allora prendi anche quest’altro).

In secondo luogo, come giustamente insiste da tempo Sergio Rossi, non si rilanciano gli investimenti con sgravi fiscali non mirati. In un’economia fortemente finanziarizzata e in cui la domanda attesa di beni e servizi stagna a causa dei bassi salari, le maggiori disponibilità finanziarie delle imprese conseguenti gli sgravi vengono quasi sempre investite sui mercati finanziari, e quindi non sgocciolano nell’economia reale. L’importanza crescente delle imprese multinazionali, la digitalizzazione della produzione e distribuzione di beni e servizi, la dipendenza sempre più stretta dei profitti dai diritti di proprietà intellettuale, in altre parole la mobilità del capitale in un’economia globalizzata, rendono ormai del tutto inadeguati i principi su cui si basa la tassazione delle imprese, ossia la residenza delle imprese e l’ubicazione dei profitti.

Da questo nuovo scenario emergono interrogativi di estrema importanza, non solo per i governi alle prese con la riscossione delle imposte, ma per la legittimità stessa del capitalismo: come tassare le imprese-rondini che si localizzano a seconda della convenienza fiscale? Come incoraggiare gli investimenti e scoraggiare l’ingegneria finanziaria? Come tassare la rendita piuttosto che l’attività produttiva?

Infine, ma non per importanza, come ridurre gli incentivi alla competizione fiscale, sia tra paesi sia, come in Svizzera, al loro interno? Sono domande complesse alle quali si fatica a dare risposte convincenti e politicamente condivise. Ne è un esempio la proposta di riforma fiscale di un economista americano, Alan Auerbach, Prof. all’Università di Berkley, in cui centrale è la tassazione del cash flow, cioè del flusso di cassa reale, non dove esso è originato, ma dove è destinato (“destination-based cash flow tax”, tale cioè da esentare i redditi realizzati con l’esportazione di beni e servizi). In buona sostanza, l’obiettivo è quello di incentivare fiscalmente le imprese a ritornare ad investire, invece di eludere/evadere la tassazione dei profitti con diabolici sistemi di tecnica contabile o di “ottimizzazione fiscale”…nei paradisi fiscali (1) .

Ritornando al Ticino, vorrebbe dire che se, ad esempio, si volesse creare la fashion valley quale “settore del futuro”, come si propone in alcuni rapporti governativi, occorrerebbe che imprese come la Gucci non si insediassero qui solo per opportunismo fiscale, ma per investire e produrre ricchezza reale.

Note

1 Per una chiara spiegazione della riforma di A. Auerbach, si veda Tax Reform in the USA. Fiscal Policy, KOF Bulletin, World Economy, 05.05.2017.

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