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Inter, la prima Coppa è la mia

La mia battaglia per l'accessibilità al Bernabeu

di Franco Bomprezzi

Ho vinto una piccola grande partita. Che mi permetterà di dire: «Io c’ero». E che mi ha consentito di portare
i riflettori sul tema della disabilità,
sulle discriminazioni quotidiane
che rendono difficili, a volte, diritti elementari. Come il diritto al tifo
C’è Dado, piccolo e dal volto pieno di rughe e di tic, che percorre continuamente avanti e indietro il lungo e stretto passaggio del parterre nella tribuna arancio, sfiorando le ruote delle sedie a rotelle, manovrando con una mano il joystick della sua carrozzina elettrica e con l’altra distribuendo gadget nerazzurri e rimproveri agli indisciplinati, con pari velocità e bravura. È lui il personaggio simbolo della tifoseria disabile nerazzurra.
Non credo riuscirebbe mai a vedere una partita stando fermo, come gli altri. Combatte in questo modo, col gelo, con la pioggia, con il caldo, la paura e la tensione che questa squadra, “pazza” come dice l’inno (composto da Elio delle Storie Tese, e anche questo la dice lunga?) riesce a comunicare ogni domenica a San Siro, pardòn, al Meazza, il tempio del calcio.
E poi ci sono gli altri, non faccio i nomi per tutelare la privacy. Ma i loro volti, le loro ruote, le loro storie, li ho ben presenti. Giovani e anziani, ragazzi e ragazze. Bardati di tutto punto, con sciarpe, bandiere, adesivi, cappellini. Sono i miei compagni di tribuna. Disabili e accompagnatori, accomunati da una passione forte, tenace, che impone militanza e sacrificio, ricambiati sempre da quel primo applauso dei giocatori nerazzurri, quando entrano in campo per il riscaldamento prima della partita, e corrono veloci verso di noi, sorridendo, ricambiati dagli incitamenti di tutti. C’è chi fatica a parlare, chi si agita scompostamente sulla sedia a ruote, chi si chiude in un silenzio cupo. Tutti pronti a “saltare” con gli altri, con i “camminanti”, quando parte il coro dalla curva Nord.

Neanche fossi Mourinho
Mi hanno accolto quasi come se fossi Mourinho, domenica 9 maggio: applausi, strette di mano, pacche sulle spalle. Orgogliosi di questa battaglia mediatica vinta a tempo di record, per ottenere ciò che è giusto, ossia corretta informazione su come andare ad assistere alla finale di Champions League a Madrid, il 22 maggio, e una accessibilità migliore in tutti gli stadi che la Uefa destina alle grandi sfide internazionali. Orgogliosi del loro stadio e della loro Inter che qui, esattamente come fa il Milan, ha costruito negli anni un servizio di ottimo livello per garantire al maggior numero possibile di spettatori con disabilità uno spazio dignitoso, con ottima visibilità, nel cuore della tribuna arancio. Orgogliosi di quello che uno di loro aveva fatto, cioè io: scrivere e testimoniare in diretta, su Vita.it e su Corriere.it, e poi andare in un programma popolarissimo di calcio, come «Qui studio a voi stadio» di Telelombardia, o ai microfoni di Radio Reporter.
Ho passato giorni intensi, stupito io per primo di quanto questo tema, così semplice e banale, stesse riscuotendo popolarità e consensi inusitati. Ne ho approfittato senza ritegno per parlare di diritti di cittadinanza: certo, qui c’era in ballo la spasmodica ricerca di un posto nella storia, al Santiago Bernabeu, per vivere da vicino le emozioni di una partita che sarà comunque indimenticabile, fra Inter e Bayern Monaco. Ma in ogni caso era importante far capire la differenza. Ossia la piccola discriminazione quotidiana che rende banalmente difficile, per una persona con disabilità, togliersi lo sfizio del superfluo, del viaggio epico, dell’impresa da conservare nella memoria. Non il diritto alla salute, né alla scuola, né al lavoro. Il diritto al tifo in prima fila, scusate se è poco. Ovvio che parlando di calcio si aprono tutte le porte, si scuotono le coscienze, e magari si riesce anche a parlare d’altro.

La Convenzione Onu
Già, perché ho tirato in ballo, come è giusto, anche la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Inutile che i Paesi la firmino e la facciano diventare legge (e fra questi Italia e Spagna) se poi nella pratica quotidiana i suoi principi di pari opportunità vengono sistematicamente aggirati.
Il fatto è che al Santiago Bernabeu ci sono meno posti accessibili di quanti ce ne siano a San Siro, e sul sito del Real Madrid non è per niente facile trovare informazioni sicure per individuare questi posti e le modalità per accedervi. Nel sito della Uefa, poi, ancora peggio: e dire che la Champions League è roba loro, non è colpa dell’Inter se queste informazioni non ci sono. E infatti l’Inter ha reagito con prontezza, e dopo i miei articoli ha pubblicato sul sito le informazioni che mancavano, ossia la possibilità di trovare 41 posti per i tifosi disabili, 32 per le sedie a rotelle, 9 per le persone disabili deambulanti. Non sono molti, ma meglio di niente.
E a questo punto sono partiti il passaparola, lo scambio di email, le telefonate, gli sms, gli appelli su Facebook: la corsa a cercare di ottenere questi posti, che vengono logicamente assegnati dall’Inter tenendo conto delle richieste pervenute, in ordine di tempo, in questi giorni (ma anche del criterio della “militanza” nel tifo, ossia la lunga presenza a San Siro anche per le partite meno importanti).

Sarò a Madrid
Non tutti ci sono riusciti, ovvio. Io credo di essere nella lista dei fortunati, e dunque sarò a Madrid. Ci andrò lentamente, non in aereo, ma in macchina, con la mia compagna. Prima tappa Barcellona, il luogo del “delitto”, la città che ci ha portato fortuna in questa incredibile corsa verso la Coppa più ambita. E poi via verso il cuore della Spagna, arrivando la sera prima della partita, in modo tale da vivere le ore della vigilia scoprendo questa città stupenda e civile, nella quale le barriere sono sicuramente poche, e la simpatia è tanta. Poi tornerò a Milano, e comunque vada sarò contento di averlo fatto. Potrò dire: «Io c’ero».
E questo piccolo privilegio segna un po’ la differenza dei tempi. Una volta sicuramente le persone disabili viaggiavano meno, e dunque non era facilmente immaginabile una richiesta “di massa” come questa. Oggi è diverso, la mobilità è migliorata, l’autonomia anche. Ecco perché non basta più che ci siano pochi posti in ogni stadio destinati a garantire l’accesso solo dei tifosi della squadra di casa.
La nostra prossima battaglia sarà questa: più posti per tutti.


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