Formazione

Informazione e propaganda. Tutti in riga

I grandi organi di informazione si sono schiacciati sulle posizioni della Casa Bianca. All'università di Padova sono stati analizzati i comportamenti dei principali quotidiani italiani.

di Fabrizio Tonello

Con l?11 settembre siamo entrati nell?era dei media torrenziali, ossessivi, isterici. Questo non è accaduto di colpo: la tendenza era già in atto da alcuni anni, in particolare negli Stati Uniti dove, nel 1995, per mesi le televisioni avevano farcito il palinsesto di ?notizie? sul processo al campione di football americano O. J. Simpson, accusato di aver ucciso la moglie, mentre nel 1998-99 l?unica realtà televisiva era quella di Clinton e del sesso alla Casa Bianca.
Mai, però, il piccolo schermo era stato così completamente riempito da un unico evento prima dei dirottamenti aerei organizzati da Al-Qaeda: nel settembre 2001, sulla Cnn, le immagini delle Twin Towers in fiamme hanno sostituito ogni altra notizia e ogni altro spettacolo per settimane. Nei tg si parlava di quello, nei talk show si discuteva di terrorismo, nelle trasmissioni di approfondimento si ricostruiva la biografia di Osama Binladin.

La notizia unica
Questo non accadeva solo nel Paese direttamente colpito, ma anche da noi: Rai e Mediaset hanno seguito le televisioni americane nella scelta di una copertura totalizzante dell?11 settembre. Una ricerca effettuata all?università di Padova mostra che nelle tre settimane dal 12 settembre al 2 ottobre 2001, il Corriere della Sera ha costantemente dedicato il titolo d?apertura della prima pagina agli attentati e alle loro conseguenze. Per i primi quattro giorni, inoltre, l?intera prima pagina è stata riservata all?argomento: solo domenica 16 settembre compariva, come taglio basso, un piccolo titolo che riguardava i danni per il maltempo a Napoli.
Il 12 settembre gli articoli che trattavano degli attentati occupavano da pagina 1 a pagina 18; il 13 arrivavano fino a pagina 20 e il 16 fino a pagina 22. Una settimana dopo, il 19 settembre, le prime 20 pagine del giornale erano ancora dedicate all?argomento. Considerando che la foliazione del quotidiano, 48 pagine, non era stata cambiata, possiamo rilevare che nella prima settimana lo spazio dedicato all?11 settembre ha occupato in media circa il 40% del giornale, calando poi leggermente attorno al 35%. L?unico giorno in cui notizie di altro argomento sono apparse nelle prime dieci pagine è stato il 29 settembre, quando un articolo sulla finanziaria è comparso a pagina 10. Il 29 settembre era però anche il giorno in cui il Corriere pubblicava l?articolo di Oriana Fallaci (quattro pagine).

1.193 articoli in 20 giorni
In totale, nelle tre settimane esaminate, il Corriere ha pubblicato 1.193 pezzi sull?argomento.
Questa alluvione di articoli e servizi televisivi avrebbe potuto essere l?occasione per una riflessione sul terrorismo, sul conflitto in Medio Oriente, sui rapporti tra Europa e Stati Uniti, sul petrolio, sulle conseguenze della guerra fredda (Binladin fu ?inventato? per combattere i sovietici in Afghanistan). Lo spazio, almeno 15 pagine al giorno su tutti i quotidiani, avrebbe permesso approfondimenti, punti di vista diversi, polemiche salutari.
Questa è stata, in effetti, la linea seguita da due grandi quotidiani: El Pais in Spagna e Le Monde in Francia. Al contrario, Il Corriere della sera ha scelto la linea dell?appello alla mobilitazione, della propaganda che non si vergogna di se stessa, del maccartismo verso chi dissente, o semplicemente esprime dei dubbi. Quest?ultimo è stato anche l?atteggiamento della grande maggioranza dei media americani, più giustificati nel loro sciovinismo dallo choc dell?attacco ai simboli del potere imperiale e delle perdite umane subite.
Com?è noto, già dal 12 settembre Il Corriere propone una lettura degli avvenimenti che adotta come frame di riferimento l?idea che gli attentati dell?11 settembre siano stati un atto di guerra diretto contro l?America, quindi contro la civiltà. L?editoriale del 12 «Siamo tutti americani», firmato del direttore Ferruccio de Bortoli, funge da manifesto della posizione del giornale: «Ci sentivamo, fino a ieri, più sicuri e cittadini di un mondo migliore. Non era così. Il risveglio è stato bruciante come quelle fiamme che alle Torri gemelle di New York (simbolo della potenza economica), o al Pentagono (simbolo della potenza militare) avvolgevano migliaia di vittime inconsapevoli. Ora siamo veramente in guerra. E quel che è peggio il nemico è invisibile. Tante vite ridotte in brandelli o in cenere. Le altre, dei loro concittadini, sconvolte. Anche le nostre, più fortunate, cambiano: le ferite che abbiamo dentro sono invisibili ma indelebili. Quelle immagini strazianti rimarranno scolpite dentro di noi. E non riusciremo a cancellare dalla nostra memoria la scritta ?America under attack? che la Cnn ha scelto come sigla della più spaventosa tragedia dei nostri tempi. Ci limiteremo a correggerla. È tutta la civiltà sotto attacco». Tutti americani, dunque, e quindi tutti vittime, tutti guidati da Bush e tutti uniti, perché è tutta la civiltà a essere sotto attacco. Resta da chiarire quale sia questa civiltà, chi vi faccia parte e chi no.

Un?altra civiltà?
Volendo prendere seriamente l?idea dello ?scontro di civiltà?, occorre innanzi tutto porsi una domanda: per quale motivo il terrorismo di Osama Binladin rappresenta un?altra civiltà (o la non-civiltà) mentre il terrorismo dell?Ira o dei gruppi paramilitari protestanti in Irlanda del Nord non ?rappresentano? la barbarie del cristianesimo nelle sue diverse articolazioni? In cosa Al-Qaeda ?rappresenta? l?Islam, mentre l?Eta spagnola, le Br italiane o la Rote Armee Fraktion tedesca non rappresentavano la ferocia dei rispettivi Paesi?
La presumibile risposta a questa obiezione è che i governi occidentali hanno condannato e combattuto il terrorismo interno, rimasto sempre minoritario in Spagna, Italia e Germania. Lo stesso si potrebbe però dire dei governi di Paesi di religione islamica che, dal Marocco all?Indonesia, hanno pochissima simpatia per Binladin, dei quali sono anzi il principale bersaglio. Leggendo i testi delle rivendicazioni di Al-Qaeda, infatti, si capisce facilmente che gli Stati Uniti erano considerati i protettori dei ?regimi empi? come quello dell?Arabia Saudita e vennero colpiti per questo, non perché permettano il consumo di alcol, il voto alle donne ed elezioni a suffragio universale.
L?argomentazione dell?attacco alla civiltà non supera nemmeno il più elementare dei test: quello di poter dimostrare che gli attaccanti erano effettivamente agenti di ?un?altra? civiltà, ovvero di una barbarie chiaramente definita nello spazio e nel tempo.
Un?argomentazione, in verità assai problematica, in favore dello ?scontro di civiltà?, viene ovviamente dall?esistenza dell?Afghanistan dei talebani, cioè di un regime che effettivamente applica una forma di legge islamica, con tutta l?intolleranza nei confronti delle donne, la crudeltà e la barbarie di cui i media ci hanno informato dopo l?11 settembre. Se esiste un Paese al mondo dove la sharia viene applicata nel modo in cui lo fanno i talebani, è concepibile che un mondo islamizzato voglia comportarsi allo stesso modo e magari imporre la sua legge anche al mondo cristiano, dopo averlo sconfitto.
Tuttavia, un po? di senso delle proporzioni avrebbe permesso di capire che i talebani, a stento in grado di controllare le loro montagne, non erano esattamente una superpotenza nucleare. Né gli immigrati di religione islamica in Europa e negli Stati Uniti, desiderosi di integrarsi al più presto, volevano o potevano applicare il programma del mullah Omar a New York, Parigi o Roma.

6 voci contro 160
Qualche voce isolata cercava di conservare una capacità di ragionamento anche sul Corriere: per Alberto Ronchey, il Corano non prevede il terrorismo, anche se prevede la guerra santa, e quindi «sarebbe dissennato criminalizzare come complice del terrorismo qualsiasi musulmano». Secondo Bruno Etienne, «è bene smettere di contrapporre Occidente e Islam: gli arabi sono occidentali, poiché il loro sistema di pensiero è greco-biblico e i musulmani hanno recepito il sistema capitalistico come una sorta di etica protestante ?islamica?. […] L?Oriente comincia con l?India». Assieme a loro, soltanto Claudio Magris, Amos Oz, Edward Said e Bernard Henry Lévy prendevano le distanze dalla camicia di forza dello ?scontro di civiltà?: 6 voci su 160 tra commenti e interviste pubblicati nelle prime tre settimane.
L?idea di Osama Binladin come avanguardia dell?intero mondo islamico è la tesi della Fallaci: «Non capite o non volete capire che qui è in atto (?) una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad, Guerra santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All?annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà.(…) Perché quando è in ballo il destino dell?Occidente, la sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo noi. L?America siamo noi. […] Se crolla l?America, crolla l?Europa. Crolla l?Occidente, crolliamo noi. E non solo in senso finanziario, cioè nel senso che mi pare, vi preoccupa di più. (…) In tutti i sensi, crolliamo, caro mio. E al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella».
Poiché si parla di guerra di religione, partiamo dal fatto che, dal punto di vista religioso, Osama e il suo protettore, il mullah Omar, non dicevano nulla di diverso da quanto affermasse la monarchia dell?Arabia Saudita, il cui leader è stato ospitato con tutti gli onori nella residenza estiva di George W. Bush tre settimane fa. È stata la dinastia Saud a diffondere nel mondo una particolare versione puritana e austera dell?Islam, quella wahabita, prima con lo scopo di legittimare il proprio potere e poi per ?comprare? la benevolenza dell?Islam radicale finanziando scuole coraniche in tutto il mondo. Questo proselitismo non ha affatto impedito ai sauditi di tessere rapporti privilegiati con gli Stati Uniti fin dal 1932, di diventare i principali partner dell?Occidente per quanto riguarda il petrolio e di investire somme incalcolabili nel sistema finanziario americano e inglese.
Se per civiltà intendiamo un sistema economico e uno stile di consumo, il ?latte di cammella? citato dalla Fallaci sembra un pericolo alquanto remoto: basta leggere le cronache della famiglia reale saudita in vacanza (per esempio su Le Monde del 24 agosto 2002) per rendersi conto che il cognacchino, o meglio il whisky, hanno stravinto: nelle residenze di re Fahd, a Marbella o altrove, gli alcolici scorrono a fiumi e non risulta che il latte di cammella sia troppo popolare nemmeno fra i sudditi, quanto meno fino a che il petrolio garantisce a sauditi, kuwaitiani e abitanti dell?Oman un welfare state ben più generoso di quelli scandinavi.

Un Occidente largo
La realtà è che l?Occidente ha integrato al proprio interno le élite di religione islamica, facendone dei clienti di Armani e di Cartier, dei residenti di Portofino e di Saint-Tropez, degli azionisti della General Motors e della Fiat. Nel frattempo, le donne saudite non potevano guidare l?automobile e, ogni venerdì, sulla piazza principale di Ryad si continuavano a decapitare i criminali, politici e non. Se i diritti umani sono ciò che caratterizza l?Occidente, i primi Paesi dove farli rispettare sarebbero stati i Paesi alleati, quelli dove gli Stati Uniti hanno influenza economica, diplomatica, militare. Per togliere il burqa alle donne afghane è stato necessario conquistare militarmente il territorio, mentre non risulta che Washington minacci bombardamenti per difendere il diritto delle donne pakistane e saudite a gettare il velo o a portare le gonne corte.
Facciamo ora un altro passo e discutiamo l?idea che lo scopo dei terroristi fosse «conquistare le nostre anime«, ovvero «indebolire quella comunità etica e politica che è chiamata Occidente». La civiltà viene quindi descritta come una ?comunità etico-politica?, la cui identità sarebbe data da una serie di valori condivisi: la democrazia, le libertà costituzionali, i diritti civili, a cominciare da quelli delle donne.
In realtà, il gruppo di Paesi considerato ?Occidente? comprende Stati dove l?imperatore viene adorato come un dio (il Giappone) assieme a Paesi dove una versione del cristianesimo è la religione di Stato (Gran Bretagna). Troviamo nazioni dove i militari hanno compiuto veri e propri genocidi (Guatemala) assieme ad altre che sono un?oasi per i profughi politici (Svezia). Classifichiamo nella stessa categoria l?Argentina del generale Videla e la Francia di Mitterrand, il Sudafrica dell?apartheid e l?Italia di Pertini.
Dovremmo inoltre includere, come cuore e cervello dell?Occidente, quegli Stati Uniti dove, dal Texas al Tennessee, si impone alle scuole di insegnare come teoria scientifica la dottrina biblica della Creazione, sostituendo così alla fede un bricolage che non è religione né scienza. L?ostilità nei confronti del darwinismo nata all?inizio del XX secolo (con il passaggio di leggi che vietavano di insegnare nelle scuole la teoria dell?evoluzione)è più forte che mai, tanto da costringere la National Academy of Science, nel 1998, a dichiarare solennemente che il creazionismo «non è una dottrina scientifica».
Tutti questi Paesi non hanno affatto religioni, leggi, costumi e prassi etico-politiche in comune, se non il fatto di tenere elezioni a scadenze più o meno regolari, tranne quando l?interesse ?superiore? impone colpi di Stato, come in America Latina. Quasi tutti hanno rinunciato all?uso della violenza e del terrore contro i propri cittadini, anche se Amnesty International compila ogni anno rapporti assai severi su molti di loro.

I fratellini dell?Fmi
La ?comunità? di cui si parla quando si evoca l?Occidente è quindi un?altra: quella derivante da un quadro legislativo abbastanza simile, in cui i diritti alla proprietà privata sono garantiti in modo efficace. è la comunità del Fondo monetario, della Banca mondiale e dell?Organizzazione mondiale del commercio, quella realmente esistente. Di questa comunità, però, fanno parte anche tutti i Paesi di religione islamica, le cui élite sembrano anzi le più zelanti nell?imitare gli stili di consumo di New York o Londra.
I Paesi come la Russia e la Cina sono già parte di quest?altra comunità e chi non vi è ancora entrato aspira a farne parte (non fosse che per allontanare il rischio di bombardamenti americani). Non esiste, quindi, alcuno ?scontro di civiltà? perché non esistono, nel mondo attuale, comunità definite su base religiosa che si contrappongono le une alle altre. Senza contare che qualunque studente di antropologia sarebbe bocciato all?esame di ammissione se mostrasse di ignorare gli scambi continui che avvengono tra le culture nazionali e l?interdipendenza di queste ultime nell?era della globalizzazione.
È proprio questa visione più complessa della realtà che è clamorosamente mancata dai media occidentali dopo l?11 settembre. Come ha scritto Le Monde, «non basta agghindare con un rivestimento teorico dei luoghi comuni perché questi diventino delle verità. Questa tentazione è intellettualmente sbagliata e politicamente pericolosa» (15 settembre 2001). Con le lodevoli eccezioni del quotidiano francese, del Guardian e di El Pais, oltre che di qualche foglio d?opinione come The Nation negli Stati Uniti o il Manifesto in Italia, i giornali e le televisioni si sono precipitati a svolgere una funzione di mobilitazione dell?opinione pubblica senza neppure bisogno di farsi imbeccare dai ministeri dell?Informazione sciolti nel 1945. Non c?è stato bisogno di un senatore McCarthy per accusare di tradimento chi avesse conservato un minimo di senso della misura (o qualche lettura che non fosse quella dei bollettini del Pentagono): intellettuali abituati a scrivere più velocemente di quanto non pensino hanno sciorinato l?intero catalogo delle argomentazioni in uso da parte della mussoliniana agenzia Stefani o del Völkischer Beobachter.

Nietzsche e Maometto
Ecco cosa scrive, per esempio, Oriana Fallaci su chi non è d?accordo con lei: «io gli sputo addosso», oppure: «sono iene che se la ridono» (29 settembre). Su un registro diverso, Angelo Panebianco il 26 settembre: «Se la guerra al terrorismo durerà anni bisognerà attrezzarsi per neutralizzare (con la parola, con la persuasione) il principale alleato di Bin Laden e soci in Occidente, la loro più preziosa ?quinta colonna?: il relativismo culturale. […] Si tratta di una forma (dissimulata) di nichilismo: solo chi non crede più in niente può porre tutto sullo stesso piano».
Il nichilismo, se ricordo bene quanto diceva il mio professore di filosofia al liceo, ha avuto tra i suoi massimi esponenti noti seguaci di Maometto come Friedrich Nietzsche ed Emanuele Severino: bruceremo i loro libri per punirli in quanto ?cattivi maestri??
Più seriamente: dopo l?11 settembre i grandi media occidentali hanno scelto di trasformarsi in strumenti di propaganda, presentando come normale l?idea di usare armi nucleari in Afghanistan, di sterminare militari e civili insieme, di creare tribunali segreti e squadroni della morte e, infine, di processare i dissidenti come traditori. Questo delirio è stato particolarmente evidente nelle tv, che hanno mostrato una forte capacità di mantenere l?opinione pubblica in uno stato permanente di ansia, di allarme, di isteria bellica.
Solo qualche settimana fa, gli americani New York Times e Newsweek hanno mostrato un sussulto di autonomia, sono tornati per un momento all?idea che il giornalismo possa essere indipendente dalla Casa Bianca e dai suoi cortigiani. Aspettiamo con fiducia che Rai e Mediaset, per non parlare del Giornale, della Stampa, o del Corriere, decidano di seguire il loro esempio.

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