Famiglia

Informarsi prima E l’evento sarà lieto

L’amniocentesi è uno dei test prenatali più pericolosi, ma dà la sicurezza di sapere se il feto nascerà sano .Mentre si anima il dibattito sull’eticità di tali diagnosi, arriva l’analisi sicura.

di Alba Arcuri

«Signora, facciamo l?amniocentesi?» È la fatidica domanda che ogni ginecologo pone alla gestante tra il terzo e il quarto mese di gravidanza, soprattutto se l?età della donna o qualche patologia ereditaria in famiglia rendono consigliabile questo particolare esame cromosomico. Un test quasi di routine, così almeno viene spesso definito, che permette di conoscere in anticipo l?esistenza di malattie genetiche nel nascituro, tra cui la sindrome di Down, ma che in realtà comporta qualche rischio per il feto in formazione.
L?esame consiste nel prelievo di circa 20 millilitri di liquido amniotico, con un sottile ago che attraversa addome e utero. Nessun problema se il tutto è affidato a mani esperte e supportato da una ecografia. Il rischio, anche se minimo (circa l?1 per cento), è quello di forare la placenta, compromettendo così la vita del bambino. Ben più rischiosa (dal 2 al 5 per cento di pericolo aborto) è la biopsia del villi coriali, che si effettua intorno alla nona settimana di gestazione inserendo un ago da biopsia nell?utero della donna e prelevando un campione di tessuto placentare (il corion).
Che fare dunque? Rischiare e sapere, o restare nel dubbio fino alla fine? E cosa fare se l?esame risulta drammaticamente positivo e si ha dunque la certezza di partorire un figlio malato? A risolvere i dilemmi etici ci pensa anche la medicina ufficiale, che sta facendo passi in avanti sia dal punto di vista della diagnosi che delle terapie. Se il nascituro, per esempio, è malato di immunodeficienza combinata grave (Scid) oggi si può intervenire con un trapianto di midollo in utero con ottimi risultati.
Novità anche sul fronte delle tecniche di diagnosi prenatale non invasive, e quindi non pericolose per la mamma ed il bambino. L?ultima viene da Richmond, in California, dove un?équipe di scienziati ha messo a punto un metodo per individuare e isolare le cellule fetali presenti, anche se in quantità ridotta, nell?urina della madre, partendo dall?osservazione che alcune di queste cellule riescono a superare il filtro dei reni. Tali cellule, una vera e propria miniera di informazioni sul Dna del nascituro, vengono sottoposte a una coltura e infine all?analisi cromosomica.
Allo stato attuale i genetisti ritengono utilizzabile il test solo per conoscere il sesso del nascituro, individuando parti del cromosoma Y, che caratterizza il sesso maschile. Ma la strada è ormai aperta: nel giro di qualche anno potremo individuare le principali patologie genetiche e altre malattie, quali le cardiopatie o la presenza di cellule tumorali con un banale esame delle urine. E si potrà sapere senza rischiare.

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