Welfare

In viaggio sull’autobus dell’integrazione

A Firenze 12 ragazzi africani affiancano i controllori. Il loro compito è convincere gli immigrati a pagare il biglietto. Ma non sempre è facile. Il racconto di una notte passata tra anziani che criticano, facce stupite e offese pesanti

di Riccardo Bianchi

Ore 17:45. Al deposito di viale dei Mille dell’Ataf, l’azienda dei trasporti pubblici di Firenze, sta per iniziare il turno delle 18 dei verificatori. Arrivano anche i mediatori sociali. Sono 12, uomini e donne di origine africana, quasi tutti senegalesi. Sono stati selezionati nelle proprie comunità per far parte di un progetto, ideato dal Comune, che ha preso il via il 1° di Agosto e terminerà il 30 Settembre. La loro missione è quella di affiancare i controllori e aiutarli con gli immigrati. Sono questi ultimi, secondo i dati dell’Ataf, i più multati nelle ore serali perché sprovvisti del titolo di viaggio, come lo chiamano qui. Oggi, 23 Settembre, come tutti i giorni, i mediatori sono in 6. Gli altri lavoreranno domani.

Scatta l’ora, si formano i soliti gruppi di due, che si aggregano ai verificatori designati. A Mamadou Niang e Fatou Mbaye, che tutti chiamano Francesca, è toccato Riccardo Calonaci. Usciti dal cancello, Mamadou, 31 anni e da 10 in Italia, inizia subito a raccontare la sua esperienza sugli autobus: «All’inizio la gente si stupiva vedendo dei neri chiedere il biglietto. Ma lentamente si stanno abituando. Certo qualche parola pesante ogni tanto vola, ma noi sappiamo restare calmi».

Arriva un 11. Il gruppo sale sull’autobus. Mamadou chiede subito il biglietto a una ragazza. Questa tergiversa un po’, poi ammette di non averlo. Mamadou prende il suo documento e lo porta a Riccardo, perché soltanto il controllore può multare e incassare i soldi delle contravvenzioni. I mediatori hanno un altro compito: parlare, convincere i cittadini, italiani e immigrati, che è giusto avere il biglietto: «Noi siamo un esempio» spiega Francesca, 34 anni «Cerchiamo di far capire che l’integrazione è uno scambio. Gli italiani ci devono rispettare, ma noi dobbiamo rispettare le regole». I due controllano tutti i passeggeri. Non mancano gli occhi spalancati e i «come scusi?». Una ragazza chiede spiegazioni all’autista su quei due «controllori di colore». Lui le racconta il progetto.

Dopo soli tre mezzi “visitati”, il gruppo ha già staccato otto verbali, di cui soltanto due a stranieri. A un certo punto un ragazzo slavo, in regola, inizia a lanciare imprecazioni contro Mamadou. Lui sembra non accorgersene, ma, appena sceso, ride: «Visto? Succede spesso. Io ho fatto finta di non vederlo, ma l’ho sentito. Bisogna sopportare certe cose, ci vuole pazienza». Il viaggio prosegue, tra persone accompagnate a casa per pagare e qualche furbo che dà generalità false.

Sono già le 19:15, mentre i tre attendono l’ennesimo autobus. «Bisogna ammettere che molte più persone hanno i biglietti da quando ci sono loro» dice Riccardo, che fino a questo punto era rimasto in silenzio. «Riescono a comunicare con gli stranieri. A dirla tutta all’inizio avevamo paura che non riuscissero a parlare con noi, che non sapessero l’italiano. Per fortuna ci sbagliavamo». Già, perché Mamadou e Francesca, come gli altri, conoscono molto bene la lingua. L’hanno imparata facendo tantissimi lavori, tra cui non manca neppure l’ambulante: «sempre meglio di rubare» ammette Mamadou.

Sono passate le 20 quando il gruppo sale su un 35, diretto verso la zona di Peretola. Francesca chiede il biglietto a due connazionali senegalesi, che non ce l’hanno. Il primo, tra sbuffi e battute, accetta di dare i documenti. Il secondo, un uomo enorme, alto e molto muscoloso, prova a cambiare posto, poi alza la voce con la ragazza. Le chiede come potrà guardarlo negli occhi domani se oggi lo multa. Lei, senza far trasparire il minimo timore, continua a guardare in faccia il gigante, gli spiega con voce ferma e bassa che quello è il suo lavoro e che le regole vanno rispettate. La discussione si fa sempre più accesa. Ma ad un certo punto il ragazzo abbassa gli occhi e demorde. La calma di Francesca ha avuto la meglio.

È ora di cena. Una pausa veloce per un panino e due chiacchiere sui nove fratelli in Senegal e sui problemi per il rinnovo del contratto degli autisti, poi si riparte. Ma si cambia gruppo. Stavolta il responsabile è Alessandro Colombari, e i mediatori Papa Mor Yaly, 35 anni e un’ottima parlantina, e Aida Mboup, anche lei 35enne. Un anziano, seduto dietro l’autista, continua a girarsi: «Fanno controllare i biglietti proprio a chi non ce l’ha mai» finge di borbottare tra sé e sé.

Tra un turista inglese che scappa e una discussione con alcuni ragazzi tedeschi – da cui si scopre che Papa parla cinque lingue – è proprio Papa a raccontare il momento peggiore della sua esperienza sugli autobus: il primo giorno del nuovo lavoro. «Ho chiamato il controllore per multare un italiano e, mentre lo aspettavo, ho chiesto il biglietto a un peruviano. Questo mi ha domandato perché non avevo multato l’italiano. Io gli ho detto che non potevo multare nessuno, ma lui non mi ha creduto e ha iniziato a offendermi. Mi ha accusato di essere un razzista, di difendere i bianchi. E non voleva smettere neppure quando l’abbiamo portato giù dal mezzo». Un “battesimo” movimentato, tanto che è dovuto intervenire un agente in borghese per riportare la calma.

Ormai mezzanotte è stata superata, il turno sta finendo. Alessandro conta 30 verbali, Riccardo lo ha nettamente superato. Ma sono cifre molto più basse rispetto ai primi giorni di Agosto. Merito della pubblicità che i mediatori hanno fatto nelle proprie comunità e delle minacce di Papa: «Ho detto anche a mio fratello che l’avrei multato», ammette con un sorriso che lascia intravedere quasi tutti i denti bianchissimi. Sicuramente loro il proprio lavoro l’hanno preso molto seriamente, non solo per lo stipendio: «In Italia si fa poco per gli immigrati» accusa Mamadou, sospirando. «L’opportunità che ci hanno dato è un passo in avanti. Però anche altre aziende dovrebbero pensare ad un progetto del genere». Un ottimo proposito. Ma sarebbe già qualcosa se, a fine mese, il Comune di Firenze e Ataf dessero un seguito a questa iniziativa, invece di accantonarla come un piacevole ricordo.

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