Sostenibilità
In viaggio nella regione che si sbriciola
Cronaca dalla prima linea degli eterni lavori in corso
di Redazione
L’ennesima tragedia sulla Salerno-Reggio Calabria mette in luce la fragilità di un territorio ferito. Dove tutti sono pronti a colate
di asfalto. E nessuno pensa alle conseguenze.
Spesso fatali Normalmente, dopo una tragedia come quella di fine gennaio avvenuta sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria nei pressi di Rogliano, ci si augura sempre che «cose del genere non accadano più». Speranza vana signori, siamo in Calabria. S’era detta la stessa cosa per Crotone e poi per Soverato e poi per Vibo, ora è toccato alle due povere vittime di Rogliano, di sicuro toccherà a qualcun altro alla prossima pioggia che sarà, c’è da scommetterci, senz’altro «eccezionale» (come se potessimo mettere il rubinetto al cielo e decidere quanto e quando deve piovere!).
Qualche acquazzone in più e puntualmente la regione si sbriciola: crollano i ponti e le strade, le colline si sciolgono, le fiumare si gonfiano di fango e detriti. E la gente muore. Eppure avete mai saputo di un ufficio tecnico comunale o di una commissione regionale che ha bocciato un progetto per una nuova strada, una nuova tangenziale, una nuova lottizzazione per l’eterno rilancio turistico, in zone dichiarate a rischio dai geologi, novelle cassandre dello sfacelo di una terra maledetta?
O non siamo costretti ad ascoltare quotidianamente le identiche dichiarazioni trite e ritrite di sindaci, di tutti i sindaci, che annunciano trionfanti l’ennesima striscia di asfalto, l’ultima audace trasversale “coast to coast” «volano di sviluppo, che toglierà dall’isolamento» le emarginate genti calabre? E via con gli sbancamenti, i muraglioni, il taglio di alberi, l’apertura di nuove ferite nel cuore delle montagne, sui fianchi delle colline, con lavori che durano anni o addirittura decenni e che servono solo ad ingrassare la cosca locale.
Almeno li facessero bene, ma neanche quello è concesso ai cittadini delle Calabrie, per cui l’asfalto dopo un po’ di tempo lascia il posto alle voragini (una manna per i meccanici), il cemento annacquato si frantuma e le canne delle strade interne si abbracciano da una corsia all’altra creando un suggestivo effetto galleria, di certo con più luce di quelle che imbocchiamo, pregando il Padreterno che il buco nero che ci sta davanti non sia quello eterno della morte. Eppure di tanto in tanto si assiste ad arrangiati lavori di riparazione e per vedere certe strade asfaltate, piuttosto che il proverbiale trapasso di un Pontefice, bisogna attendere una sua visita pastorale da queste parti (oppure sperare in una tappa del Giro d’Italia).
Siamo dunque di nuovo qui a chiederci il perché dell’ennesima tragedia annunciata, se poteva essere evitata o meno, a cercare i responsabili che non si troveranno mai, perché a giudicarli tutti sono davvero troppi e il senso di colpa, si sa, non alberga nel fiero animo dei calabresi. Per carità, nessuno si aspetta l’harakiri – mica siamo giapponesi – ma almeno le scuse ai familiari. Parlo di tutti quelli che, dal progettista spregiudicato al tecnico tangentista e giù giù fino all’operaio indolente e menefreghista, pensano che, male che vada, ad essere travolti da un fiume in piena, a schiantarsi contro un muro o a morire sotto una frana, saranno sempre gli altri.
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