Cultura

In Usa beneficenza segreta agli azionisti

Una proposta di legge vorrebbe imporre alle imprese quotate in borsa di informare azionisti sulle sulle cifre destinate ad enti non profit

di Sergio Lucchetti

Il congressman dell?Ohio Paul Gillmor non pensava di generare tante reazioni negative. Nel marzo del ?97 l?esponente repubblicano ha presentato una proposta di legge che imporrebbe alle società americane quotate in Borsa di dichiarare ai loro azionisti tutte le offerte di beneficenza fatte nell?ultimo anno fiscale, precisandone l?ammontare. A questa proposta ne ha aggiunta in seguito un?altra per dotare gli azionisti anche del potere di veto in materia di donazioni e quindi imporre che questi contributi vadano posti al vaglio dell?assemblea. Da allora è cominciata la levata di scudi delle società e curiosamente anche di alcuni degli enti che vivono di contributi di beneficenza.
Dietro alle proposte c?è la realtà di un Paese come gli Usa dove le aziende devono ovviamente dichiarare al Fisco, ma non ai loro azionisti, a chi fanno donazioni e per quale motivo, precisandone l?ammontare. Il tutto si riferisce a una cifra da 8,5 miliardi di dollari all?anno in donazioni che è solo il 5,6 per cento del totale raccolto in beneficenza negli Usa, e che compare solo nei bilanci di alcuni gruppi particolarmente sensibili o in genere società ?socialmente responsabili?. Come Ben & Jerry sul fronte del gelato e la Stoneyfield Yogurt. Uno studio della rivista Chronicle of Philantrophy ha stabilito che solo due delle prime venti società americane per fatturato, la banca Citicorp e il gruppo petrolifero Chevron, informano regolarmente gli azionisti sul loro operato in campo filantropico. Dieci si sono dichiarate disposte a fornire informazioni a chi le richieda, e tre hanno detto senza mezzi termini che queste informazioni sono e restano riservate. Warren Buffett, considerato il secondo uomo più ricco d?America e uno degli investitori di maggior successo a Wall Street, lascia decidere agli azionisti della Berkshire Hathaway di cui è socio a quali gruppi e cause fare le donazioni della società.
La proposta di Gillmor viene osteggiata perché ritenuta vaga e sopratutto costosa, e molti ritengono che la sua attuazione farebbe ridurre proprio le donazioni delle società stesse. La Lucent, una ex divisione della AT&T, ha commentato che il suo rapporto sull?attività filantropica viene richiesto da 300 azionisti all?anno, mentre spedirlo a tre milioni di azionisti costerebbe circa 9 milioni di dollari, vale a dire metà dello stanziamento annuale per la beneficienza. Questo non toglie, ovviamente, che esistano molte iniziative isolate che vanno da quelle della catena di caffé Starbucks che paga il caffé più del suo prezzo di mercato per migliorare le condizioni di vita dei contadini in Guatemala e Costarica, la Clorox che impone ai dirigenti di essere nel consiglio di almeno una organizzazione non-profit, o quelle come la BP America che pubblicano un ?social report? annuale per descrivere cosa la società abbia fatto per l?ambiente, i suoi dipendenti, i rapporti a livello locale e l?etica del suo operato. Solo nel settore bancario la situazione è diversa per tutti. Dal ?77 la legge sul reinvestimento comunitario impone alle banche di investire parte dei loro profitti nel territorio in cui operano, e con finalità sociali. In poco più di vent?anni le banche hanno elargito prestiti per 353 miliardi di dollari a favore di zone a reddito basso e fatto investimenti in scuole, palestre e attrezzature sociali. Per gli istituti di credito l?impegno c?è: in molte fusioni bancarie uno dei primi documenti resi noti dalle due banche ?promesse spose? è il piano di investimento per il territorio. Ed è in discussione un allargamento del meccanismo alle istituzioni finanziarie, comprese le compagnie assicurative e le case di brokeraggio. ?

Rockefeller meglio di Bill Gates

«La filantropia fa parte del contratto sociale non scritto che sta alla base del sogno americano. Se quel contratto si rompe, la crisi è molto probabile. E tutti gli americani, ricchi e poveri, ci perderebbero». A lanciare questo allarme non è una news letter dell?Esercito della Salvezza, ma l?autorevole settimanale ?The Economist? che nel suo primo numero di giugno dedica copertina, editoriale e servizio d?apertura per avvertire i ricchi americani che la sfida che li attende in questo fine millennio è quella di farsi carico della popolazione più povera. L?uscita dell?Economist è pesante e ultimativa: «In questo momento», è scritto nell?editoriale,«l?economia sta andando così bene che tutti guadagnano. Ma la diseguaglianza è cresciuta a dismisura e negli ultimi vent?anni la forbice tra guadagni e donazioni si sta troppo allargando. Nel 1997 gli americani hanno donato 143 miliardi di dollari a enti non profit, ma di questi solo 13 sono arrivati da fondazioni e soltanto 8 da imprese, gli altri soldi sono arrivati da singoli cittadini e non tra i più ricchi. Pur continuando a essere più generosi dei tirchi europei, una statistica ha rilevato che l?80 per cento degli americani che guadagnano più di un milione di dollari l?anno non lascia nulla in beneficenza. I nuovi miliardari», continua l?editoriale di Economist, «della Silicon Valley e di Wall Street sono solo delle pallide copie di quelli che furono definiti ?ladri e baroni? dell?economia Usa. John Rockefeller cominciò a dare quando ancora faceva l?impiegato e alla fine della sua vita aveva donato circa 6 miliardi di dollari. I Rockefeller, i Morgans e i Vanderbilt avevano il senso degli scopi delle loro azioni, i nuovi ricchi alla Bill Gates pensano che tutto gli sia dovuto e al massimo buttano via i loro soldi pur di avere il proprio nome inciso sulla facciata di una facoltà universitaria. Così non va, la filantropia del 2000 ha bisogno dai nuovi capitani d?industria idee responsabili “.

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