Welfare

In Somalia tutti han messo lo zampino

Inglesi, italiani sovietici. Ora americani e cinesi. In questo angolo d’Africa le nazioni ricche sono responsabili di un colossale pasticcio, di Giulio Albanese

di Redazione

Il riacutizzarsi della crisi somala, in seguito al recente intervento dell?esercito etiopico a fianco del fragile governo di transizione del premier Ali Mohammed Gedi, è sintomatico di un devastante processo di dissolvimento politico-istituzionale, uno dei fenomeni più sconvolgenti nella storia post coloniale africana.

Dalla caduta del regime di Siad Barre nel 1991, il Paese è precipitato in una condizione di totale anarchia, nonostante i ripetuti interventi, a volte ahimè controversi, della comunità internazionale e di certe cancellerie occidentali.

In effetti, per chi conosce la storia di questo Paese, le lacerazioni interne erano iniziate prim?ancora che fosse destituito Barre, padre del ?pansomalismo?. Già a cavallo tra gli anni 80 e 90, la carta geopolitica della Somalia si presentava come una sorta d?arcipelago frastagliato di gruppi etnici, accomunati sì dalla lingua, ma con un proprio insediamento territoriale e dotati di una forza militare pronta a rovesciare il regime di Mogadiscio. E quando questo avvenne non interessava ad alcuno l?affermazione delle istituzioni democratiche ma piuttosto ciò che davvero stava a cuore ai cosiddetti ?signori della guerra? erano gli obiettivi strategici: dalle forniture di armi e munizioni all?assegnazione degli aiuti, dal riconoscimento internazionale al controllo militare della capitale.

L?errore di Barre

Il regime socialista di Siad Barre, impostosi durante la guerra fredda, nonostante avesse conseguito degli ambiziosi traguardi a livello di educazione pubblica, sanità e sedentarizzazione dei nomadi, aveva decisamente fallito nel creare le condizioni per uno Stato in cui vi fosse davvero attenzione allo sviluppo e al benessere condiviso. Ad esempio, come rileva il grande storico dell?Africa, Giampaolo Calchi Novati, sotto Barre il settore agricolo non fu oggetto dell?attenzione necessaria e questo compromise le chance di riscattare la Somalia dalle condizioni di arretratezza. La tassazione indiretta dei contadini da parte dello Stato centrale, che pagava i prodotti a prezzi irrisori rispetto alle quotazioni di mercato, fomentò il disincentivo a produrre.

Ne derivò un?economia sotterranea, impedendo qualsiasi forma di coordinamento delle attività produttive che erano essenziali per generare sviluppo. La mancanza di una vera e propria classe dirigente attenta alla ?res publica?, il crescente dispotismo di Barre e i fallimenti delle sue politiche economiche, acuirono la frammentazione, innescando vere e proprie turbolenze sociali. E dire che quando l?Italia amministrò la Somalia, su mandato dell?Onu, dal 1° aprile 1950 al 1° luglio del 60, la formazione dei quadri dirigenziali era stata la principale delle preoccupazioni.

Un caos di civiltà

Il Paese africano durante l?amministrazione fiduciaria era stato dotato gradualmente di un sistema parlamentare, di un esecutivo, di una Costituzione e di forze armate efficienti e ben addestrate. Al momento dell?indipendenza, la maggioranza dei politici proveniva dalla scuola politico-amministrativa istituita a Mogadiscio dall?Afis – Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia e possedeva una laurea in scienze politiche o in giurisprudenza; un analogo iter formativo era stato seguito per i comandi sia dell?esercito che della polizia.

Ben presto però emersero non poche difficoltà legate in parte all?economia locale – i somali continuarono ad essere per circa il 70% pastori seminomadi ed in misura minore ?agricoltori-allevatori? dediti ad un?attività di auto-sussistenza – e al contesto internazionale profondamente segnato dall?algida contrapposizione tra Stati Uniti ed ex Unione Sovietica. D?altronde, è bene rammentare che i dirigenti somali erano figli di una cultura nomadica fortemente tradizionale, avevano subito l?influsso delle amministrazioni britannica (il Somaliland si fuse con il resto del Paese nel 60) e italiana e parlavano almeno quattro lingue: somalo, arabo, inglese e italiano.

Gradualmente, dopo l?indipendenza, molti di loro cominciarono a seguire corsi di perfezionamento in Egitto e in altri Paesi arabi, mentre con l?avvento al potere di Barre nel 69, si consolidò l?influsso politico e culturale dei Paesi del blocco sovietico. Ecco che allora fu impresa assai ardua se non addirittura impossibile: riconciliare concetti giuridici e amministrativi appresi all?estero, spesso tra loro in contraddizione, e comunque antagonisti rispetto alle norme comportamentali in uso nei rispettivi clan di provenienza. In altre parole, come ben evidenziò nel corso di un?illuminante conferenza Basil Davidson, autorevole storico africanista britannico, l?apparato statale somalo racchiuse numerosi elementi in contraddizione tra loro, ignorando gli aspetti tradizionali della società autoctona.

Il giornalista Diego Marani, in un interessante dossier pubblicato da Nigrizia nell?aprile del 97, evidenziò come il codice civile, improntato al diritto di famiglia italiano, non includeva molte delle norme tradizionali raccolte nei testùr somali. Per non parlare del codice penale, basato prevalentemente sul diritto nostrano, che non prevedeva in alcun modo il concetto di responsabilità collettiva in rapporto all?organizzazione delle famiglie somale in gruppi allargati.

Col dissolvimento graduale del fragile Stato somalo dilagarono ovunque legioni di ?senza legge? al comando dei vari ?signori della guerra?, mentre di converso le Corti islamiche, fautrici della sharìa, hanno imposto un collante giurisprudenziale totalizzante.

La Cina a Mogadiscio

Per evitare dunque che la Somalia passi senza soluzione di continuità da un disastro all?altro, si avverte oggi più che mai l?esigenza di una mediazione culturale e religiosa prim?ancora che politica, evitando così d?abbandonare il popolo al proprio infausto destino. Gli interessi stranieri in gioco sul Corno d?Africa e in particolare legati al territorio somalo non sono indifferenti. La Somalia infatti dispone di ricchi giacimenti di gas naturale, petrolio e uranio .

Da questo punto di vista, guardando all?attuale congiuntura internazionale, la comunità internazionale ha l?obbligo di vigilare perché gli interessi petroliferi non prendano il sopravvento o quantomeno condizionino il processo di pace in Somalia. Infatti, secondo fonti ufficiali a Pechino, una compagnia petrolifera cinese, la Zpeb – Zhongyuan Petroleum Exploration Bureau, ha iniziato lo scorso anno l?esplorazione nella regione dell?Ogaden, al confine tra Etiopia e Somalia.

In Somalia, come nel resto del Corno d?Africa, gli interessi in competizione tra governi locali e compagnie energetiche occidentali e asiatiche, soprattutto cinesi, divengono ulteriori elementi di criticità e rappresentano un motivo in più per promuovere dall?interno una ricostruzione illuminata della Somalia.

Il petrolio c?è. Ecco chi lo dice

Il 18 gennaio 1993 sul Los Angeles Times venne pubblicato un ampio resoconto, a firma di Mark Fineman, su quelli che erano, già al tempo del regime di Barre, gli interessi di alcune multinazionali in Somalia: Conoco, Amoco, Chevron e Phillips. Studi accurati, commissionati dalla Banca mondiale all?inizio degli anni 90, sotto la direzione di un grande esperto in materia, il geologo Thomas E. O?Connor, indicano rispettivamente la Somalia e lo Yemen come due sponde della stessa configurazione geologica contenente un enorme potenziale di giacimenti off-shore.

Per saperne di più:
Giampaolo Calchi Novati, Il Corno d?Africa nella storia e nella politica, Sei, Torino 1994


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