Politica

in somalia il mondo fa prove di forza. e la gente soffre

Retroscena di un'emergenza umanitaria ignorata

di Padre Giulio Albanese

Le forze ribelli stanno avendo la meglio sul governo di Sheikh Ahmed, mettendo a rischio la pace della Somalia e dell’intero Corno d’Africa. I big si muovono dietro le quinte e l’Onu latita
Un amico che opera nella diplomazia mi ha raccontato di un rappresentante della Croce Rossa che, in un meeting europeo sulla Somalia, chiese come fosse possibile che questa crisi umanitaria fosse, allo stesso tempo, «così grave e così invisibile». La risposta sta nel senso di frustrazione della comunità internazionale verso tale scenario.
Quella somala è una situazione paradigmatica del deficit di legalità che interessa l’intero Corno d’Africa, dove la diplomazia internazionale è in grave affanno. Da un lato vi è l’Etiopia, che si è prodigata nel proporsi come l’alleato più credibile e militarmente efficiente degli Stati Uniti, ma che, pur avendo occupato militarmente la Somalia per due anni, non è riuscita a sconfiggere le forze ostili al governo di transizione. La speranza era riposta nelle mani del moderato Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, succeduto nel dicembre scorso al presidente Abdullai Yusuf, con l’intento di perseguire il progetto di pacificazione nazionale, ispirato all’accordo di Gibuti del giugno 2008. Sta di fatto che le forze ribelli di al Shebaab hanno avuto la meglio. Una vittoria resa possibile anche dal consistente impegno militare offerto loro dal governo eritreo, denunciato di recente dallo stesso Sheikh Ahmed. Ecco quindi che la Somalia è sempre più la cartina al tornasole delle rivalità tra Etiopia ed Eritrea, il cui interventismo a Mogadiscio e dintorni non fa che acuire la “guerra fredda” in atto tra i due Paesi fin dagli accordi di pace del 2000.
Questo contesto geopolitico preoccupa la Casa Bianca, che considera la Somalia una linea di faglia tra Oriente e Occidente in territorio africano: la fascia che va dal Mali al Mar Rosso rappresenta la più importante cintura di sicurezza dei prossimi anni, visto che il suo controllo garantisce alle potenze occidentali il diritto di accesso a risorse e luoghi strategici. Punti deboli di questa fascia sono l’Eritrea, il Ciad, il Sudan e soprattutto la Somalia, considerati possibili varchi della penetrazione dell’estremismo islamico in Africa. A ciò si aggiunga la consistente presenza di idrocarburi nel Corno d’Africa, un fattore d’instabilità per l’interesse di potentati più o meno occulti: le coste somale continuano ad essere infestate da bande di pirati che, secondo fonti ufficiose, verrebbero foraggiate anche da misteriose forze internazionali intenzionate a scoraggiare le attività d’estrazione petrolifera off-shore al largo della costa somala.
In questo contesto, segnato dalla sofferenza della popolazione civile, appare impotente un’Onu che si limita a prorogare fino al 31 gennaio 2010 – attraverso la risoluzione 1872, votata a fine maggio – la missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom): una forza d’interposizione che riesce a garantire a malapena l’incolumità dei propri militari. L’unico segnale positivo viene dalla prossima riunione dell’International Contact Group sulla Somalia, che si tiene a Roma il 9 e 10 giugno. Al nostro governo, che s’è fatto promotore di questa iniziativa, va il delicato compito di tenere i riflettori puntati su un Paese che vive da tempo la prima emergenza umanitaria del pianeta.

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