Non profit

In realtà Olivetti un erede ce l’ha…

Editoriale

di Giuseppe Frangi

In questo numero di Vita ci sono due servizi che vorremmo mettere in connessione. Il primo è quello che riguarda i 50 anni dalla morte di Adriano Olivetti. Il secondo sono le tre pagine finali dedicate alla sesta assemblea di Federsolidarietà. Qual è il filo conduttore che lega il più innovativo industriale italiano alla più grande rete di cooperative sociali del nostro Paese (5.404 cooperative, 185mila lavoratori)? Come ricorda Giulio Sapelli (nell’intervista a pagina 18) «Olivetti favorì la nascita di un vero e proprio movimento cooperativo nel canavese e ha dato vita a un istituto per studiare e favorire questa forma di impresa». Il filo conduttore è la passione per l’uomo come individuo che trova la sua realizzazione nel mettersi in relazione positiva e solidale con gli altri. Quando si rileggono le pagine di Olivetti, aldilà dell’intelligenza profetica di tante intuizioni, quello che colpisce (e che spiazza se pensiamo alle parole che escono dalla bocca dei suoi successori, anche i migliori) è ciò che lo muove: l’interesse per le persone che ha davanti e attorno a sé, per il loro benessere, per la serenità delle famiglie, per la soddisfazione del lavoro che ognuno fa («questa fabbrica che amiamo», è uno dei suoi refrain più ricorrenti). La grandezza di Olivetti era innanzitutto in questa passione umana da cui si generava e trovava una ragione d’essere anche il suo genio imprenditoriale. Oggi ci si chiede che ne è di quel patrimonio. E non si trovano risposte proprio perché si guarda ai risultati, a volte strabilianti, di quell’avventura industriale e non alle sue ragioni di fondo. E se i risultati sono difficilmente replicabili su quella scala, le ragioni invece sono a portata di mano. Ed è su questo punto che il nesso tra Olivetti e l’esperienza di imprenditorialità sociale diffusa che costituisce il patrimonio di Federsolidarietà si fa stringente. Così stringente da riassumersi in una parola: comunità. Comunità è il paradigma dell’azione e del pensiero di Olivetti, e comunità è il cantiere a cui lavorano ogni giorno le migliaia di persone nelle cooperative di Federsolidarietà. Comunità è ben più che una buona ipotesi organizzativa delle relazioni sociali; comunità è un’idea che si ha della persona. Perché la realizzazione di ciascuno in quanto individuo è possibile in un rapporto di fiducia, di stima, di condivisione anche valoriale con gli altri. Come spiega Aldo Bonomi nell’intervista a pagina 19, quello che dobbiamo apprendere da Olivetti non è un modello, ma la voglia di sperimentare. La comunità come un tentativo, nel senso che non è qualcosa che sta dietro di noi da replicare, ma è sempre qualcosa che sta davanti a noi da reinventare e su cui rischiare. La comunità ha bisogno di avventurieri, non di garanti dell’ordine. E in questo la cooperazione sociale, con la sua innata capacità di reinventare il destino delle persone costruendo relazioni che prima non esistevano, di tirar fuori capacità laddove c’erano storie e destini di uomini “parcheggiati”, ha le carte in regola per raccogliere l’appassionante eredità di Olivetti. È una questione di consapevolezza. E di percepire pienamente quanto sia prezioso il proprio ruolo in quest’Italia dominata dall’irresponsabilità di chi comanda e dalla spensieratezza sciocca di chi sta a guardare.


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