Sullo sfondo di questa convulsa e drammatica fine 2009 che stiamo vivendo, credo ci siano alcune domande obbligate che non possiamo più eludere: che idea abbiamo della vita – della nostra vita e di quella di tutti; che idea di uomo e di donna; che idea delle relazioni personali e sociali; che idea dell’educazione e del lavoro. In una stagione di inselvatichimento brutale non tanto della vita in sé, ma dei modelli di vita che vengono ossessivamente proposti, è necessario ripartire da domande basiche, elementari. Lo spunto per una riflessione in profondità mi è venuto ascoltando un passaggio del discorso che il Papa ha pronunciato l’8 dicembre scorso, rivolgendosi al popolo di Roma. Ha detto Ratzinger: «Ogni giorno attraverso i giornali, la televisione, la radio, il male viene raccontato, ripetuto, amplificato, abituandoci alle cose più orribili, facendoci diventare insensibili e, in qualche maniera, intossicandoci, perché il negativo non viene pienamente smaltito e giorno per giorno si accumula. Il cuore si indurisce e i pensieri si incupiscono».
È una fotografia esatta, che il Papa scatta come se lui stesso sentisse su di sé la spinta di questa negatività. Non parla di altri; parla di qualcosa che riguarda tutti. E quindi è qualcosa da cui non ci si difende né ci si libera delegando a chicchessia il compito di svelenire l’aria. L’iniziativa deve essere di ciascuno. È una presa di coscienza che parte da quelle domande basiche ed elementari cui abbiamo fatto accenno. Quando ci chiediamo a quale idea di uomo e di donna noi tendiamo, possiamo ad esempio confrontarci con questo profilo che il Papa, sempre in quel discorso ha tracciato: «…coloro che in silenzio, non a parole ma con i fatti, si sforzano di praticare questa legge evangelica dell’amore, che manda avanti il mondo. Sono tanti, e raramente fanno notizia. Uomini e donne di ogni età, che hanno capito che non serve condannare, lamentarsi, recriminare, ma vale di più rispondere al male con il bene. Questo cambia le cose; o meglio, cambia le persone e, di conseguenza, migliora la società».
Non c’è un a priori di fede in queste parole. E quindi non c’è motivo per non accettare lealmente il confronto. O per non farne presupposto e spunto per una coscienza nuova da assumere e da diffondere. Come dice la frase di Charles Péguy che Vita ha scelto come biglietto augurale per queste feste, oggi è il momento di un «riinizio temporale», come quelli che nella storia del passato sono maturati, allorché «le città si intiepidivano». Non sono «riinizi» che hanno la presunzione di aggiustare la storia, perché, come dice sempre Péguy con sano realismo, si tratta di «precarie temporanee riprese». È come un balbettio, che è segno di una volontà nuova, diversa. Che non vuole distribuire verità, ma diffondere uno sguardo diverso. Che non pretende di mettere ordine, ma che si fida dell’ordine che è nella natura delle cose.
Resta solo da chiedersi su cosa si possa poggiare il desiderio e la volontà di questo «riinizio temporale». E il Natale dà una risposta: è una tenerezza che colpisce il cuore di ciascuno; è una commozione verso la vita e la novità continua che la vita è. È questo l’augurio che facciamo a tutti, a chi crede e a chi non crede.
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