Non profit

In palestina si muore e il mondo si gira dall’altra parte

E' tragica la situazione in Medio Oriente mentre la diplomazia internazionale e' incapace di proporre soluzioni

di Giuseppe Frangi

«Non sappiamo più in cosa sperare». Quando un grido così si alza da chi, per vocazione, è chiamato a custodire il luogo su cui miliardi di uomini hanno riposto la loro speranza più grande, vuol davvero dire che il dramma è sconvolgente. Intervistato in occasione della Pasqua per il nostro sito (www.vita.it) e per Senza fine di lucro (Radio24), padre Giovanni Battistelli, il francescano a capo della custodia dei luoghi santi ha infatti detto con disarmata semplicità che il «popolo è disperato». Sono le cifre a raccontare questa disperazione: dal 28 settembre al giorno di Pasqua, in Israele e Palestina ci sono stati 476 morti, quasi tutti civili. 391 palestinesi; 71 israeliani; 13 arabo-israeliani, un tedesco. E tra loro ben 101 avevano meno di 18 anni. Oltre al bilancio del sangue, c’è anche quello della miseria, anche questo soprattutto a carico dei palestinesi: nella striscia di Gaza il reddito medio pro capite che prima di settembre era di 1.700 dollari pro capite l’anno, ora è più che dimezzato e si vive con 2,10 dollari al giorno, cioè sotto la soglia della povertà.
È una guerra non dichiarata ufficialmente, ed è per questo che, sotto certi profili, è peggio di una guerra.
Una guerra, infatti, inquieterebbe le grandi potenze, le indurrebbe a escogitare qualche soluzione, le costringerebbe ad un’iniziativa. Invece Israele e la Palestina sono abbandonati a loro stessi, allo stillicidio quotidiano di attentati e di vendette, di una spirale di odio e di incomprensioni sempre più profonde e radicali. Così se il presente è quello che i numeri purtroppo raccontano, il futuro è sempre più difficile da immaginare. La forbice che s’allarga non è solo quella dell’odio che aumenta giorno dopo giorno e lutto dopo lutto, ma è anche quella delle abissali differenze sociologiche chiamate, un domani, a confrontarsi su quel tormentato fazzoletto di terra. Da una parte una nazione, Israele, che vive la sua rivoluzione digitale, dall’altra un’altra nazione, la Palestina, che non ha ancora percorso la sua rivoluzione industriale. Quale ingegneria diplomatica riuscirà mai a rimediare a un disastro simile? Infatti, quello che sta accadendo nella Terra più santa del mondo è il frutto tragico (e pagato sulla pelle di altri) di un declino della capacità di mediazione politica di ha in mano le leve del mondo. Non ci riferiamo solo all’insulsaggine dei tentativi di Bill Clinton; o al neo sciovinismo di George W. Bush, tutto concentrato a gestire la sua fortezza vacillante.
C’entra soprattutto l’ignavia di casa nostra, della nostra Italia e della nostra Europa che pure nei decenni scorsi erano stati capaci di iniziative politico e diplomatiche. C’entra l’egoismo maldestro e ottuso con il quale una politica estera, ormai ignorante della storia e impotente nei rapporti, presume che quello che succede aldilà del Mediterraneo non riguardi il nostro passato, il nostro presente e senz’altro il nostro futuro. Andando a votare il 13 maggio (chi ci andrà) è bene che tenga conto anche di questo. Di una politica estera che in questi anni si è ridotta ad un ufficio di pubbliche relazioni a sostegno di qualche “affare estero”.

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