Non profit

In otto anni 43mila morti

Afghanistan: 11mila sono vittime civili (7mila uccisi dalle truppe alleate)

di Redazione

Si avvicina l’anniversario dell’inizio della guerra in Afghanistan. Il prossimo 7 ottobre si conclude  l’ottavo  anno di una guerra iniziata il 7 ottobre 2001. Ad ogni anno che passa, non si concludono però i conti con le perdite umane di civili e di miliari.  Secondo i  numeri pubbliicati dal sito di PeaceReporter, sono caduti 21 soldati italiani, 1.400 soldati alleati, 6 mila soldati e poliziotti afgani. In base alle stime, sono morti circa 25 mila guerriglieri talebani e quasi 11 mila  civili afgani (di cui oltre 3 mila vittima degli attacchi talebani e almeno7 mila uccisi dalle truppe alleate – più di 3 mila civili morirono nei solibombardamenti aerei del 2001-2002).  Otto anni di guerra hanno causato circa 43 mila vite umane.
Ingenti i costi economi: in questi anni i contribuenti italiani hanno speso oltre due miliardi e mezzo di euro. L’aumento progressivo di mezzi e di truppe ha fatto lievitare la spesa  da un costo annuo medio di circa 300 milioni di euro a mezzo miliardo. 40 milioni sono stati investiti nella ricostruzione.
Anche se su scala minore, il nostro paese è in linea con le spese degli Usa e degli altri paesi della Nato. Gli alleati sono anche in linea con lo stesso dubbio: distruggere o ricostruire ? Nel dicembre 2007 il capo del Pentagono, Robert Gates, dichiarò che in Afghanistan «la Nato deve spostare la sua attenzione dall’obiettivo primariodella ricostruzione a quello di condurre una classica controinsurrezione». E così è stato. Fu stabilito che prima era necessario sconfiggere i talebani, e solo poi ricostruire il paese. «Come nella seconda guerra mondiale – spiegava recentemente nel dibattito di Firenze l’analista militare Gianandrea Gaiani – prima si sconfissero i nazisti, poi si ricostruì l’Europa con il piano Marshall».
Non tutti però sono  d’accordo. Per il generale Fabio Mini, ex comandante delle truppe Nato in Kosovo, bisogna ribaltare le priorità: prima la sicurezza e poi la  ricostruzione. «Oggi la sicurezza in Afghanistan non è assicurata da nessuno tanto meno dalle forze militari straniere. Controllare il territorio significa avere il consenso della gente. Noi non potremo mai avere sicurezza fino a quando non sarà garantita la sopravvivenza agli afgani. C’è bisogno di ricostruire l’Afghanistan, anzi, di lasciarlo costruire a chi ha le forze: ai civili. Lasciamo perdere i militari».
 Escludono le forze speciali della Task Force 45 utilizzate nell’operazione segreta ‘Sarissa’, fino a tre anni fa la maggior parte del contingente italiano in Afghanistan era posizionato  a Kabul, dove la situazione era ancora molto tranquilla, e dove i soldati non erano impegnati in azioneidi lotta armata.
La sicurezza e le occasioni di scontro militare contro i talebani sono drasticamente cambiati dall’estate del 2006,  quando il  contingente è stato trasferito nelle regioni più instabili  e turbolente  dell’ovest del paese e dove sono iniziati i primi scontri con i guerriglieri talebani, ufficialmente solo ‘difensivi’. Dal gennaio 2009 le truppe italiane, hanno  mutato la loro composizione (non più alpini e bersaglieri ma
solo parà della Folgore), sono cresciuti di numero (quasi 3 mila), si sono dotati di mezzi più aggressivi (carri armati ed elicotteri da combattimenti), e hanno cambiato le regole d’ingaggio passando da una fase difensiva a quella offensiva penetrando a Farah e Badghis, ovvero le aree controllate dai talebani.  
Da allora i soldati italiani attaccano i guerriglieri talebani mentre quelli rimasti a presidiare Kabul si difendonsi dalle imboscate e  dagli attacchi attuati dagli infiltrati talebani sia fuori che dentro la capitale.

In foto: il militare Michele Sanfilippo, morto a kabul nell’ottobre 2005

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