Mondo
In Iraq l’Onu mi ha tradito
Per tredici mesi ha lottato perché a Baghdad fosse permesso vendere più petrolio in cambio di cibo e medicine.
“Sono libero e in cerca di lavoro, quindi se avete qualche proposta da farmi…”. Denis Halliday si presenta in puro stile inglese, anche se lui in realtà è decisamente irlandese. Per 13 mesi è stato a Baghdad come coordinatore per le Nazioni Unite del Programma ?Oil for food? in Iraq. Ma nel settembre ?98 ha rassegnato le dimissioni dall?incarico e dall?Onu. «Mi sentivo troppo a disagio a rappresentare la bandiera Onu in territorio iracheno».
E ora, come sottolinea, è libero. Libero di raccontare la sua verità sull?infinita crisi nel Golfo Persico, che ancora ci ?regala? immagini drammatiche di bombardamenti e di una popolazione che pare rassegnata. La verità, dunque, di un un uomo che per più di 30 anni ha militato nell?Onu. In Italia è giunto su invito dell?associazione umanitaria ?Un ponte per…?, e alla conferenza stampa i taccuini dei pochi giornalisti italiani si aprono, avidi di essere riempiti con verità non ufficiali provenienti da una ex fonte ufficiale. «La politica delle sanzioni non ha nessun impatto a livello governativo, mentre provoca danni irreparabili alla popolazione innocente», esordisce con durezza Halliday. «Ogni mese in Iraq muoiono dai 4 ai 5 mila bambini per l?impatto che le sanzioni hanno sulla reperibilità di cibo o medicinali, ma anche sulle infrastrutture idriche e sanitarie. Per questo l?embargo è incompatibile con la Carta Onu sui diritti umani e, in particolare, con i diritti dell?infanzia».
Cosa può dire di questa popolazione irachena che, da quasi vent?anni, senza interruzioni, sopporta guerre con l?Iran e guerre del Golfo, bombe, missili ed embarghi?
La paura continua dei bombardamenti e le sanzioni Onu stanno minando le basi della società. L?economia è stata distrutta dalla fuga di tre milioni di lavoratori professionisti. Sono aumentati i divorzi e diminuiti i matrimoni, perché i giovani non possono permettersi di sposarsi. E una nuova criminalità è sorta dalle macerie: gente sempre più disperata, anche bambini, che sfruttano ogni mezzo per sopravvivere. Pensare che a Baghdad la gente lasciava la porta di casa aperta… E il clima di terrore rafforza Saddam; anzi, è persino considerato troppo moderato, soprattutto dai giovani, che la nostra politica spinge verso l?integralismo, come i Talebani in Afghanistan.
Che impatto reale ha sulla società irachena il programma ?Cibo in cambio di petrolio?, che lei coordinava?
Senza di esso, tutti gli iracheni sarebbero già morti. Detto ciò, facciamo dei distinguo. Quando sono arrivato a Baghdad l?importo totale dell?operazione ammontava a soli 2 miliardi di dollari di cui solo il 60% era impiegato per cibo e medicinali, il 30% finiva nei compensi per i danni di guerra in Kuwait, il 10% per gli stipendi dei funzionari Onu e Unscom. Dopo nove mesi ho ottenuto che l?importo del petrolio che l?Iraq poteva esportare salisse a 5,2 miliardi, ma intanto è crollato il prezzo del petrolio e così il governo di Baghdad ha potuto esportare solo 2,6 miliardi di dollari in petrolio. Così i soldi non sono mai stati sufficienti non solo per il cibo, ma anche per ricostruire gli ospedali e le scuole. Inoltre in periodi ?caldi? come questo la distribuzione di cibo si ferma, perché gli operatori non sono sufficientemente garantiti. Si possono immaginare le drammatiche conseguenze…
E i sospetti che buona parte dei proventi di ?Oil for food? finiscano direttamente nelle tasche del governo iracheno?
I contatti per le forniture di cibo e medicine sono decisi dall?Iraq ma poi passano sempre per l?approvazione Onu. Quindi, al contrario di quello che dicono molti, neanche un dollaro finisce nelle tasche del presidente Saddam Hussein.
E il sospetto che funzionari Onu lavorassero per i servizi segreti americani o inglesi?
Sulla genuinità dei membri delle agenzie umanitarie Onu non ho dubbi. Se invece ci si riferisce ai soggetti che lavoravano e lavorano per l?Unscom non posso dire altro che se uno ha lo stipendio pagato dalla Cia, è ovvio che svolga il suo lavoro per la Cia. È una questione di deontologia professionale.
Non ha mai avuto paura per la sua vita, lavorando a Baghdad, in territorio, diciamo così, nemico?
Certo che ho avuto paura, piovevano missili in continuazione! I pericoli non vengono certo dalla popolazione, ma dagli Usa e dalla Gran Bretagna. Lo diceva padre Jean-Marie Benjamin (il sacerdote- regista che ha girato due film a Baghdad contro l?embargo, vedi ?Vita? del 15 gennaio 1999 – ndr): non è scontato che questi ?missili intelligenti? colpiscano sempre l?obiettivo giusto, anzi, spesso falliscono. E aggiungeva: chissà che disastro farebbero se fossero missili ?stupidi?. Ecco perché avevo paura.
Così lei ha abbandonato il suo incarico, non potendo più, come ha sottolineato, scendere a compromessi con se stesso. Cosa vede nel futuro dell?Iraq?
A giugno ho ricevuto forti pressioni da Washington e Londra perché lasciassi il mio incarico. La cosa mi aveva quasi rallegrato, era il segno che stavo lavorando bene. Poi le cose si sono fatte insostenibili, hanno continuato a mettermi i bastoni tra le ruote finché, a settembre, ho dovuto lasciare perché non potevo portare avanti il mio lavoro. In futuro, per quanto riguarda l?Iraq ma non solo, bisognerà imparare a ragionare in termini di diplomazia preventiva, invece che di programmi d?emergenza o di operazioni di peacekeeping. Un caso lampante è rappresentato proprio dall?invasione del Kuwait nel ?90: questo territorio è stato separato dall?Iraq solo in tempi recenti, come manovra occidentale per creare debolezza fra i Paesi del Golfo. Saddam non è stato il primo capo di stato iracheno a tentarne la riannessione. Il Kuwait rubava petrolio dal territorio iracheno, tramite una perforazione obliqua vicino al confine. Se questi elementi fossero stati valutati prima, forse non saremmo qui a parlare di tutte le tragedie che sono successe.
Campagna per “Rompere l’embargo”
Le associazioni Comitato Golfo e Un Ponte per Baghdad già dal 1991, l?anno in cui scoppiò la prima Guerra del Golfo, sono impegnate nel promuovere la campagna nazionale ?Rompere l?embargo?, tesa a porre fine alle sanzioni internazionali imposte all?Iraq e a fornire una corretta informazione sulla situazione politico-militare nella zona del Golfo Persico. La campagna promossa chiede al governo italiano (l?ultima lettera al presidente D?Alema risale alla fine dell?anno scorso), da un lato la condanna delle violazioni commesse dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna e la richiesta che l?Assemblea dell?Onu si pronunci contro di esse, e dall?altro la richiesta dell?immediata fine dell?embargo, accompagnata dalla sua cessazione unilaterale «perché l?Italia non sia più complice di un genocidio che ha già ucciso oltre un milione e mezzo di persone». Alla campagna hanno già aderito un notevole numero di associazioni, tra cui: Acli, Arci, Legambiente, Mani Tese, Cocis, Cipsi, Focsiv, Beati i Costruttori di Pace, Loc e Salaam i Ragazzi dell?Olivo. Per maggiori informazioni su ?Rompere l?embargo?: segreteria Comitato Golfo e Un Ponte per Baghdad, via Festa del Perdono 6, 20122 Milano, tel. 0258315437, fax 0258302611;comitato.golfo@agora.it.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.