Cultura

In attesa (che spuntino le ali)

di Maria Laura Conte

L’attesa in coda per il turno del tampone. O l’attesa dell’esito, che si carica di un tasso più alto di angoscia. L’attesa di un nuovo decreto (arriverà stasera?) o del bollettino di contagi e morti del giorno, della conferenza stampa del governo che annuncerà nuove misure, ma continua ad essere rinviata…

Tra l’inquieto e il rassegnato, l’attesa del nuovo lockdown (certo ci sarà, o forse no?), del vaccino (tra due-tre mesi), o del Natale: come faremo per i regali, li manderemo con Amazon? Ma i pranzi? Si accomapagnerà a una tregua?

Se non del Natale, è attesa della primavera. Sì lei non tradirà, si porterà via tutti i mali. Attendiamo.

Siamo noi adesso: fatti di attesa. Lo siamo sempre stati, certo, solo che ora dilaga, esasperante. Come se la pandemia avesse accelerato pure questo processo e teso la corda degli archi che siamo noi: pronti a scagliare frecce avvelenate. In tensione come se qualcuno ci avesse fissato una scadenza imminente. O ci avesse promesso qualcosa (lo scrive così l’eterno Pavese) e noi fossimo con il palmo della mano in su, pronti a riscuotere.

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Attesa viene dal latino tendere, che con la preposizione ad- disegna quasi la posizione del corpo, il nostro inclinarci in avanti verso qualcosa o qualcuno.

Manus caelo adtendere in Apuleio è proprio questo: tendere le mani al cielo.

Ma ad-tendere è anche inteso come dare attenzione: lo usa Cicerone quando esorta: stuporem hominis attendite, osservate la stupidità dell’uomo (immortale, duemila anni fa, come oggi). O quando scrive ad-tendere animum studiose, cioè fare attenzione con studium, cioè con passione.

E passione resta impigliata nel significato di attendere che giunge a noi per definire quell’azione-viaggio che si sviluppa in un tempo la cui lunghezza e densità sono percepite in modo diverso, a seconda della destinazione finale. Un tempo popolato da sentimenti ribelli, dai più febbrili e smaniosi ai pazienti e fiduciosi.

C’è un’ansietà d’attesa nella stanza/

il calabrone è un acino di rabbia

Pierluigi Cappello

Come quando sediamo su un treno ad alta velocità. Il treno è l’attesa, il binario è il tempo che ci vuole per condurci alla stazione giusta. Può consistere di felicità pura, a gradi diversi di agitazione, per un appuntamento con la persona amata, con una nascita, con un evento festoso, che accelera il battito cardiaco, muove a preparativi e cura. O al contrario può essere ansia e angoscia, che tolgono fiato e prospettiva.

È un tempo che ha la fibra della curiosità, morde la carne e vorrebbe che la speranza si dilatasse a occupare tutto lo spazio possibile, contendendolo alla paura e alla rabbia.

C’è un’ansietà d’attesa nella stanza/il calabrone è un acino di rabbia/Ha descritto da parete a parete/spigoli d’aria, ha picchiato”, scrive Pierluigi Cappello, che negli spigoli di aria e nel picchiare offre l’immagine perfetta della durezza dell’attesa.

Potrebbe volgersi in un bene o al contrario diventare una tortura, e andare a schiantarsi contro una delusione. Se non si trasforma, non la si lavora bene.

Un spiraglio di luce viene dalla parola cugina di attendere, che è aspettare. Dal latino aspicio, questa parola ha in sé la radice di guardare, vedere, esaminare.

Suggerisce che se l’attesa si riempie di apertura di sguardo, può guadagnarci. Permette di soffermarsi su frammenti che altrimenti, sfocati, vanno perduti. Particolari che possono essere persone, incontri, parole o foglie d’autunno che ci vengono incontro non per “ammazzare” il tempo dell’attesa, ma per dargli spessore. Riempiono il buco nero che deglutisce tutto. Motivano il tempo del viaggio tanto che aspicere arriva a significare aspettare con fiducia.

L’attesa chiede visione, ne ha bisogno.

Pennas exire aspexere, scrive Ovidio: aspettarono, cioè videro, si accorsero che spuntavano delle ali.

Questo modo di "aspettare" potrebbe aiutare a prendere il volo.

E qui torna a planare il calabrone di Cappello che nel frattempo, spalancate tutte le finestre per liberarlo, si è accorto che “fuori il sole/è fiorito sui rami, sorridente”.

Pennas exire aspexere/

Si accorsero che spuntavano delle ali

Ovidio

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