Welfare

Imprese e non profit Un dialogo che non parte

Cosa non funziona nel nostro sistema di inserimento

di Luca Zanfei

La legge Biagi puntava a creare relazioni tra centri per l’impiego, aziende private e cooperative sociali di tipo B. Ad oggi, però,
le convenzioni si contano
sulle dita di una mano.
E anche le clausole sociali e gli appalti riservati, a causa della confusione legislativa, non sono mai decollati«Le imprese più grandi, che in genere sono quelle che hanno più scoperture, preferiscono pagare le ridicole sanzioni per il mancato adempimento più che avere la scocciatura di inserire soggetti “difficili”», attacca Giovanni Sansone, responsabile dello sportello SuperAbile per l’Inail. «Per questo motivo noi preferiamo indirizzare le persone direttamente alle cooperative sociali, più che ai centri per l’impiego».

Un problema culturale
Ma proprio qui sta il paradosso, perché gli articoli 12 della legge 68 e 14 della legge Biagi avrebbero dovuto fare da trade union tra centri per l’impiego, imprese private e cooperative sociali di tipo B. Ad oggi però, secondo la Relazione, le convenzioni e le commesse affidate alla cooperative sociali ex art. 12 e 14 si contano sulla dita di una mano.
«Il problema è culturale», dice Bruno Pozzobon, presidente del consorzio trevigiano “In concerto” che, forse unico in Italia, può contare su un fatturato per oltre il 50% proveniente del mercato e principalmente dalla commesse ex art. 14. «Anche quando funziona, lo strumento delle commesse è una formidabile scappatoia per l’impresa. Questo non viene accettato da molte cooperative che non vogliono svolgere un ruolo da comprimario. Altro problema sono le convenzioni ex art. 12, praticamente mai partite, che così come vengono applicate relegano le cooperative al degradante ruolo di laboratorio formativo. In più le stesse aziende preferiscono rivolgersi ai centri per l’impiego, più che alle cooperative, perché sanno che le procedure di assunzione sono lunghe e quindi possono rimandare l’obbligo». Forse anche per questo, il ministro Sacconi ha richiamato l’attenzione della cooperazione sociale nel formulare proposte di miglioramento della legge 68 (vedi le interviste sotto).

Nuovi strumenti
Ma allo stato attuale forse è il caso di puntare su altri strumenti. Gli appalti riservati e la clausole sociali, per esempio, pensati dalla Comunità Europea per agevolare le politiche di inserimento e che il legislatore italiano ha tradotto negli articoli 52 e 69 del nuovo Codice degli appalti (legge 163/06). Ma anche qui i problemi non mancano. Nonostante le continue sollecitazioni, ancora oggi l’Autorità di vigilanza non è riuscita a dirimere l’annosa questione sui laboratori protetti, indicati dalla legge europea come soggetti beneficiari della riserva e accostati forse impropriamente alla cooperazione sociale di tipo B.
Il risultato è che, non sapendo come legiferare, le amministrazioni locali hanno scelto di ignorare il problema, applicando l’art. 52 in pochissimi casi sotto soglia e spesso solo nella formula dei programmi di lavoro protetto. Progetti che contemplano inserimenti ad hoc limitati alla sola durata del servizio e che vedono spesso la cooperazione nello scomodo ruolo di gregario in Rti guidati da imprese private.
Più appeal sembra avere invece lo strumento delle cosiddette clausole sociali, che al momento potrebbero aprire nuovi spazi di azione sia alle pubbliche amministrazioni che alle cooperative. Adottato soprattutto al Nord e nei Comuni più sensibili al tema, come Torino, Monza, Pioltello, Fano e Pesaro, l’articolo 69 della legge 163 ha di fatto rivestito un ruolo importante nei capitolati di gara, raggiungendo anche i 30 punti di peso nell’aggiudicazione. Inoltre, la sua interpretazione esclusivamente nei termini di inserimento lavorativo, ha permesso alle amministrazioni di aggirare il vincolo della riserva ai disabili, per abbracciare le altre categorie di svantaggio proprie della cooperazione sociale, anche secondo la lettura allargata propria della normativa europea.

Depotenziamento
Il problema però è che «nei capitolati il progetto di inserimento è spesso messo in secondo piano, in favore del semplice numero di persone svantaggiate coinvolte», spiega Maurizio Trivella, coordinatore area Ambiente della cooperativa Poliedro, una delle partecipanti a una gara indetta dal Comune di Fano. «Così non si presta attenzione al modello e alla continuità del percorso». Inoltre, «manca completamente un sistema di monitoraggio dei progetti di inserimento», continua Trivella. «Le amministrazioni sono attente solo all’offerta tecnica, verso la quale i controlli sono stringenti. Per il resto si fa riferimento a una generica relazione sul tipo di inserimento, che spesso non viene richiesta o in molti casi si traduce in una semplice autocertificazione. Così si rischia di depotenziare uno strumento formidabile, almeno sulla carta».


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