L’appello di Riccardo Bonacina sembra aver impresso un nuovo impulso ad una Riforma che sembrava essersi arenata.
L’annuncio di Luigi Bobba http://www.vita.it/it/article/2016/03/07/riforma-terzo-settore-in-aula-il-16-marzo/138540/ da concretezza a questo auspicio.
Sul perché la notizia della Riforma dovrebbe essere un segnale di buon auspicio è già stato detto tanto.
Cogliendo anch’io, nel mio piccolo, l’invito di Riccardo, vorrei contribuire con il commento a due provvedimenti normativi che aumentano le ragioni dell’urgenza di questa Riforma.
Il primo tema riguarda le cosiddette società benefit (SB) e il loro rapporto con le imprese sociali.
La loro introduzione è per me un segnale in gran parte positivo. Concordo con le osservazioni, spesso lungimiranti, di Roberto Randazzo, soprattutto con l’auspicio che tutte le società atterrino nel “pianeta B”.
Però non si può non biasimare il fatto che la norma, come al solito, nasca scollegata dal resto dell’ordinamento giuridico.
La sua stessa previsione, in un testo normativo come la legge di stabilità, la dice lunga. Sembra il frutto di uno dei tanti assalti alla diligenza che caratterizzano tale provvedimento legislativo, piuttosto che la risultante di un dibattito organico e meditato.
Il risultato è che oggi abbiamo un’impresa che può fregiarsi di un’etichetta social (cosa positiva), ovvero di un importante valore aggiunto sul piano competitivo.
Ma se confrontiamo il valore competitivo di questa etichetta con quella di “impresa sociale” ci rendiamo conto di un indebito sbilanciamento a sfavore di quest’ultima.
Oggi essere impresa sociale significa sottostare ad una normativa fatta di limiti, condizioni e controlli, a fronte di nessuna agevolazione fiscale e di un’etichetta che, di fatto, è tanto inutile quanto sconosciuta.
Essere una SB, invece, significa godere di un’etichetta potenzialmente molto appeal, senza alcuna agevolazione fiscale, ma anche senza particolari limiti, condizioni e controlli.
È tale la società che persegue uno scopo necessariamente lucrativo (<<oltre allo scopo di dividerne gli utili>> dice il comma 376), accanto ad uno o più scopi di beneficio comune.
Per beneficio comune s’intende, ai sensi del comma 378, il perseguimento di un effetto positivo o la riduzione di un proprio effetto negativo! Ma è davvero così apprezzabile come beneficio comune la diminuzione di un maleficio comune autoprodotto? Mah… Quanto meno dipende!
Per beneficio comune la norma intende quello ricadente praticamente su tutti gli stakeholder possibili e immaginabili, ivi compresi gli stessi clienti, i creditori, i finanziatori.
Mah… anche questo vuol dire tutto e niente. Scusate ma anche la riduzione del prezzo per il cliente, o l’aumento del profitto per il finanziatore sono esternalità positive apprezzabili. Basta questo per qualificarsi SB??
Veniamo al tema dei controlli. Il comma 381 prevede che l’inosservanza degli obblighi di cui al comma 380 può costituire inadempimento dei doveri imposti agli imprenditori e fonte di loro responsabilità, secondo le norme del codice civile.
La responsabilità degli amministratori è trattata, dal codice civile, soprattutto in relazione alla società. Il riferimento agli obblighi imposti dalla legge e dallo statuto sembra confermare tale assunto (vedi, in particolare, gli artt. 2932 e ss c.c.). Ma per intraprendere questa azione, che ha funzione prevalentemente risarcitoria, occorre che vi sia un danno nei confronti della società o, in determinati casi, dei singoli soci direttamente lesi da tale violazione.
Così intesa, la norma non lascia molto margine ad eventuali azioni di responsabilità nei confronti dei propri amministratori che, violando gli obblighi di cui al comma 380, e fregiandosi di questa etichetta, abbiano assicurato un bel vantaggio economico e competitivo alla propria società. Si tratterrebbe di una responsabilità pur sempre interna alla società e condizionata dalla produzione di un danno ugualmente interno all’assetto societario.
Etichetta di cui, paradossalmente, non potrebbero fregiarsi gli enti non profit, che non perseguono scopi lucrativi e che non indossano la veste societaria.
Insomma si tratta di una norma che promuove l’impresa for profit socialmente responsabile, intesa come impresa avente, come funzione obiettivo, la massimizzazione del profitto, ma con un vincolo di sostenibilità sociale!
Una norma che regola poco può esser un vantaggio. A patto che dietro la de-regolamentazione non si nasconda un’operazione di annacquamento del valore distintivo della responsabilità sociale d’impresa o della stessa impresa sociale o di cosa debba intendersi per social impact.
A patto che quando si parla di impact investing (e qui vengo a valutazioni ben più pesanti in termini economici) le due cose non si mettano sullo stesso piano!!
L’impresa sociale, lo si ricorda, è completamente diversa. Essa persegue, come funzione obiettivo, la massimizzazione di un impatto sociale, ma con il vincolo della sostenibilità economica.
Non è possibile regolare le SB senza regolare in modo organico le imprese sociali; senza porsi il problema di un coordinamento organico di entrambe le discipline; senza una visione organica del modo di fare impresa sociale o socialmente responsabile!
Il tutto, e veniamo rapidamente al secondo tema, mentre le norme nazionaliche recepiscono le direttive europee, continuano ad evocare, come giustamente osservato da Guerini, la figura di impresa sociale, oggi sostanzialmente, ed univocamente, riconducibile al solo mondo cooperativo.
C’è bisogno di una riforma organica!! Il che implica maggior “cooperazione”, e meno corporativismo, tra i vari stakeholder di questo dibattito politico, culturale ed economico.
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