Impresa sociale: terra di mezzo, di tutti, o di nessuno?

di Filippo Addarii

L’impresa sociale è una terra di mezzo dove tribù ben distinte e spesso in conflitto stanno convergendo; una terra di tutti dove un legislatore con tendenze staliniste ha l’intenzione di far ricollocare tutti coloro che operano nel sociale vendendo beni e servizi; o una terra di nessuno e  disertata se non per fare cagnara come è successo finora?

Queste sono le domande sul tavolo del gruppo di lavoro sull’impresa sociale riunito ieri, per la prima volta, dall’advisory board italiano della taskforce su social impact investments del G8. E’ un’occasione per allineare il lavoro di revisione della legge italiana sull’impresa sociale che diversi gruppi istituzionali e non hanno portato avanti, e la ricognizione che la taskforce del G8 sta conducendo in tutti i paesi membri per definire le linee di sviluppo del mercato degli investimenti sociali.

Questa volta ci siamo. Le stelle sono allineate in una costellazione favorevole. Il nuovo Ministro del Lavoro Poletti vuole una proposta da presentare al Parlamento, e l’Italia dovrà dare conto dei propri progressi al resto del mondo. Ospiteremo il 28 – 29 Ottobre la riunione di tutti i membri della taskforce e, il 19 – 20 Novembre, la conferenza europea sull’imprenditorialità sociale.

Non c’è più tempo per rimandare. E’ tempo di decidere e agire… anche perché Danilo Giovanni Festa – modello di un’amministrazione pubblica never give up! – ha pure qualche buona idea per la copertura finanziaria della riforma.

La scelta non è evidente. Quello dell’impresa sociale è un tema che scalda gli animi e accende le passioni. Mi sorprende che Grillo non abbia ancora detto la sua in materia.

Abbiamo visto le difficoltà nella gestazione della legge italiana del 2006 e nei successivi tentativi di riforma che oggi si rissumono nella proposta di emendamento degli Onorevoli Bobba e Lepre. Anche a Bruxelles questo è diventato terreno di scontro da quando la Commissione Europea ha lanciato l’agenda sull’innovazione sociale e quella sull’imprenditorialità sociale (Barroso, 2010 – Barnier, 2011).

Io ne sono stato testimone prima come membro del Gruppo di Esperti sull’Imprenditorialità Sociale della Commissione Europea (GECES) che ha portato per lo più a esiti insoddisfacenti: poco più di un non-profit rivisitato e sempre marginale. Poi vi ho partecipato come membro del gruppo italiano riunito dal Ministero del Lavoro. Anche in questo caso sono le cooperative e le cooperative sociali a dominare la discussione per la semplice ragione che l’impresa sociale è percepita come uno sviluppo del terzo settore.

Il lavoro del G8 spiazza questa impostazione introducendo la presenza ingombrante dei capitali privati e la necessità di offrire un rendimento agli investitori per superare i limiti della filantropia. La partita non è da poco. L’obiettivo dell’agenda degli investimenti sociali è di ridefinire le modalità di finanziamento del Welfare State –  la sua sopravvivenza! – riconfigurando tanto la relazione tra pubblico e privato, quanto quella tra profit e non-profit. Quindi ci siamo dentro tutti.

L’Italia non è nuova al tema. La sua storia comincia con il volontariato e il movimento cooperativo per poi rinnovarsi con le cooperative sociali ed esperienze di finanza sociale come quella di Banca Etica. Ma il fenomeno recente degli ibridi (partnership tra profit e non-profit) traccia la strada per il futuro perché definisce la possibilità per nuove forme imprenditoriali di gestione dei beni comuni e offre un modello di goverance democratica in tempo di privatizzazioni.

Il consorzio CGM ha lanciato già una sessantina di ibridi. Tra poco uscirà lo studio di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai pubblicato da Il Mulino. Da non perdere.

Però sono anche altri i filoni da considerare. I risultati dei charity bond di UBI così come quelli della piattaforma di crowd-lending TerzoValore di Banca Prossima sono incoraggianti. Vale la pena prestare attenzione anche ai timidi sviluppi delle start-up a vocazione sociale. Infine non trascurerei casi esemplari come quello di Eataly, di Arduino e della sharing economy piu’ in generale che sono ugualmente fonti di sviluppo economico sostenibile e diffuso, e di creazione di capitale sociale.

Peccato che non mi venga in mente niente di simile nel campo dell’arte e della cultura visto che parliamo d’Italia. Scommetto che la soluzione per Pompei verra’ da questo nuovo mondo emergente di intendere e fare produzione economica e sociale.

Certo che la revisione della normativa sulla impresa sociale richiede una riflessione attenta su una serie di questioni critiche per realizzare il potenziale ed evitare abusi. Queste sono di certo le più importanti:

–          Tetto sulla  ridistristribuzione degli utili facendo attenzione a non scoraggiare gli investitori e a non creare barriere legislative che impediscano futuri sviluppi (profit cap);

–          Non trasferibilità dei beni dell’impresa a soci o a soggetti terzi per uso privato (asset lock);

–          Accordo tra i diritti degli investitori e quelli dei soci lavoratori per preservare tanto la governance democratica quanto per non perdere in dinamismo imprenditoriale;

–          Trasformazione del terzo settore in direzione ancor più commerciale o ridefinizione della missione delle imprese for profit. Nel secondo caso si tratterebbe di una nuova dimensione della CSR introducendo i principi etici del terzo settore nel business model delle imprese for profit  cosi’ come si sta già sperimentando negli States con low-profit company e B-corporation;

–          Espansione dell’elenco dei campi d’intervento definiti nell’attuale legge oppure eliminazione dei medesimi lasciando la possibilità di applicare il modello dell’impresa sociale ad ogni tipo di impresa e organizzazione, e affidando alla definizione dell’impatto sociale realizzato il compito di definire quando questa applicazione è appropriata. quest’ultima strada è quella inizialmente intrapresa dalla Commissione Europea e perseguita anche dal G8. Il primo ostacolo è rappresentato da una definizione amministrativa della misurazione dell’impatto sociale. Il secondo ostacolo è rappresentato dal rischio di frodi fiscali. La misurazione d’impatto dovrebbe essere  validata da una certificazione fatta da terzi, altrimenti si potrebbe spingere la sperimentazione ulteriormente optando per la trasparenza totale e lasciando al mercato l’ultima parola. Nell’economia digitale questo approccio è stato realizzato nel modello open-source e funziona molto bene.

I lavori sono cominciati e questa volta non si fermeranno finché non avremo dato delle risposte precise. Bisogna ringraziare l’abile direzione del triunvirato che rappresenta l’Italia nella taskforce del G8: Giovanna Melandri, Mario Calderini e Mario La Torre. Sono riusciti a mettere tutte le parti intorno allo stesso tavolo e il gruppo cresce di volta in volta. Quindi non perdetevi le prossime puntate. Stay tuned!

Dimenticavo, pettegolezzo professionale: che fa la Commissione ora che i padrini dell’agenda per l’innovazione sociale e l’imprenditorialità sociale stanno per uscire di scena? A me sembra che si facciano dei pasticci a Bruxelles. Dopo la Grande Bellezza di Strasburgo la Commissione ha organizzato la prossima conferenza proprio negli stessi giorni in cui si terrà la riunione di tutti i membri della taskforce del G8 e di tutti gli advisorsy board nazionali: Londra, 19 – 20 giugno. Viene da domandarsi: ci fanno o ci sono?


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