Economia

Impresa sociale, qual è la direzione giusta? Gran Bretagna, Francia e Belgio. Tre modelli per l’Italia

Con la ripresa dei lavori parlamentari riparte il dibattito in Senato. Quale direzione deve prendere il nostro Legislatore? L'avvocato Roberto Randazzo presenta tre strade possibili

di Roberto Randazzo

Con la ripresa dei lavori parlamentari nelle prossime settimane si riaprirà il dibattito sul percorso di riforma del Terzo Settore , in questo ambito, una parte rilevante sarà legata ai ragionamenti relativi al rinnovamento delle forme di imprenditoria sociale. Come noto, l'Italia ha precorso i tempi approvando, nel 2006, la norma sull'impresa sociale che, tuttavia, ha avuto una scarsa e del tutto marginale efficacia nel nostro sistema. Senza più perdere tempo prezioso, e accantonando qualsiasi riflessione e commento riguardo al passato, oggi preme volgere lo sguardo al futuro e, anziché chiudersi in un approccio autarchico alle nuove forme di imprenditoria sociale, bisogna trarre ispirazione dai modelli adottati in altre giurisdizioni europee e dalle dinamiche poste in essere dall'Unione Europea allo scopo di sviluppare il sistema dell'imprenditoria sociale.

La Commissione Europea, nell'ambito del piano strategico Europa 2020, ha lanciato nel 2011 la Social Business Initiative (SBI) considerando l'imprenditoria sociale come uno degli elementi centrali per la trasformazione economica e sociale del continente.

L'allora Presidente della Commissione, José Manuel Barroso, annunciando la SBI, fece espresso riferimento al "ruolo centrale dell'imprenditoria sociale per la crescita ed il cambiamento, in grado di dimostrare che é possibile agire in maniera più responsabile pur operando positivamente e con successo sul mercato. Diventando un concreto motore di crescita per l'UE". Dunque, mercato e innovazione sociale non sono considerati come antitetici, al contrario l'affermazione e la diffusione dell'economia sociale sul mercato è stata incentivata dall'UE attraverso interventi specifici in materia di Public Procurement e con il sostegno agli investimenti nell'imprenditoria sociale, sia mediante il suo inserimento fra le aree prioritarie dei Fondi Strutturali sia promuovendo gli investimenti privati nel social business con l'istituzione del Fondo Europeo per l'Impresa Sociale ed il sostegno a forme di venture capital.

Un cammino complesso, di medio, se non di lungo termine e con rilevanti difficoltà operative ma che, tuttavia, punta alla creazione di un sistema che integri visione politica con necessità sociali, scelte imprenditoriali innovative con nuovi modelli finanziari e di investimento, con l'obiettivo finale di stabilizzare un nuovo modello economico ispirato, e non provocato, dagli epocali mutamenti vissuti in questi anni in Europa.

Dunque, qualsiasi scelta dovesse essere effettuata dal legislatore italiano, essa dovrà necessariamente portare verso la creazione di enti che siano in grado di operare sul mercato e, soprattutto, di intercettare fondi strutturali e investimenti, anche in forma di capitale.

In questo ambito, il legislatore avrà anche la possibilità di trarre ispirazione dall'analisi di forme giuridiche adottate in altre giurisdizioni europee che già hanno stabilito di coniugare esigenze di utilità sociale con lo svolgimento di attività imprenditoriale in un'ottica di mercato.

La giurisdizione che ha precorso i tempi è quella del Regno Unito che già nel 2005 introduceva la Community Interest Company (CIC), caratterizzata da scopi benefici prevalenti e da una distribuzione degli utili limitata ad una percentuale che possa garantire il perseguimento di tali scopi come finalità prevalente. Attualmente la somma complessiva dei dividendi non può superare il 35% dei profitti distribuibili della CIC. La misurazione del beneficio comune ottenuto dalla CIC viene effettuata annualmente mediante la presentazione, da parte di quest’ultima, di un rapporto specifico al CIC Regulator che ne valuta la rispondenza con il “community interest statement” depositato in sede di costituzione della CIC.

Anche il Belgio ha introdotto nel proprio ordinamento una disciplina che si muove in questa direzione prevedendo che, sia le società di capitali che le cooperative potessero acquisire lo status di Société à Finalité Sociale. Nella fattispecie, la normativa vigente prevede la possibilità per tali anti di distribuire tra i soci una quota di dividendi che non ecceda il 6% del capitale versato. Questo vale anche nel caso in cui tra i soci figurino uno o più investitori (es. un fondo sociale d’investimento).

Più recentemente, con la legge 856 del 31 luglio 2014, la Francia ha introdotto la disciplina della Entreprise Solidaire d'Utilité Sociale (ESUS), uno status che può essere concesso ad enti senza scopo di lucro, cooperative e società di capitali nel caso in cui questi rispondano a determinati requisiti. In particolare la normativa richiede che le ESUS perseguano principalmente scopi di utilità sociale e che questi ultimi abbiano un sensibile impatto sul business dell’ente. Almeno il 66% delle voci di costo deve essere dedicato al perseguimento delle finalità sociali, in alternativa, nel corso degli ultimi tre esercizi, il rapporto tra la somma dei dividendi e della remunerazione degli strumenti finanziari non bancari (es. obbligazioni), da una parte, e la somma dei capitali propri e dei contributi finanziari non bancari, dall’altra, deve essere inferiore al tasso medio di rendimento delle obbligazioni di società private, aumentato del 5 %.

Qualsiasi dovesse essere la scelta del nostro legislatore in merito all'imprenditoria sociale, essa non potrà non tenere conto della direzione in cui si sta muovendo l'Unione Europea, né fare a meno di trarre ispirazione dalle scelte effettuate, recentemente, da altre giurisdizioni europee. Di certo, non si potrà fare a meno di valutare con attenzione quali siano le più recenti tendenze di questo mercato e le intersezioni dell'impact investing con il mondo dell'imprenditoria sociale. Una riforma, perché sia efficace, sistemica e longeva non deve limitarsi ad interventi di semplice maquillage, ma deve essere in grado di tracciare la strada di una vera innovazione, che permetta di guardare ben oltre l'orizzonte.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.