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Impresa sociale: ecco cosa cambia
Sarà possibile svolgere attività imprenditoriale senza dover per forza ricorrere alla forma cooperativa. E non saranno attività solo di servizio alla persona. Leggi il testo della legge
“Sono imprese sociali le organizzazioni senza scopo di lucro che esercitano in via stabile e principale un?attività economica di produzione o di scambio di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale”. Sarà bene imparare alla svelta questa formulazione, contenuta nell?articolo 1 del disegno di legge delega 2595 approvato giovedì 12 maggio al Senato e ieri alla Camera.
A tre anni dall?approvazione del ddl da parte del Consiglio dei ministri, il nostro ordinamento accoglie non solo una nuova forma giuridica, ma riconosce formalmente un’innovazione che cambia il modo stesso di fare impresa portando a compimento quanto già avviato nel 1991 con la legge 381 sulla cooperazione sociale. Imprenditore non è solo chi svolge un?attività economica per ottenerne un profitto, ma anche chi intende perseguire finalità di interesse generale.
«Il disegno di legge è stato seguito con grande attenzione dal governo», sottolinea il relatore del provvedimento a Palazzo Madama, il senatore di An Luigi Bobbio, «l?intero iter è stato condiviso da tutti gli schieramenti, credo quindi che si possa arrivare all?approvazione dei decreti delegati entro la fine della legislatura».
«In realtà questa non è un?iniziativa che risponde solo all?esigenze del non profit», puntualizza Carlo Borgomeo, convinto sostenitore dell?imprenditorialità sociale, «ma ha una portata molto più ampia perché contribuirà a flessibilizzare l?intero sistema economico».
Per capire quale sarà la portata innovativa di questa legge bisogna partire dall?unica forma di impresa sociale finora riconosciuta nel nostro ordinamento e in particolare dai limiti di quella che Carlo Borzaga, preside della facoltà di Economia dell?università di Trento, definisce come la ?madre? della legge sull?impresa sociale, la 381 del 1991. «Con l?impresa sociale sarà possibile svolgere un?attività imprenditoriale di interesse generale non più attraverso una sola forma di impresa, quella cooperativa, appunto: rispettando alcune condizioni, lo si potrà fare con tutte le altre forme di impresa previste dal nostro ordinamento. Inoltre l?imprenditorialità sociale non sarà più relegata, così come è stato finora, alle sole attività di servizi alla persona, ma potrà essere estesa alla produzione di tutti i beni comuni. Le imprese sociali potranno occuparsi di turismo responsabile, ambiente, commercio equo e solidale, sviluppo locale, solo per citare alcuni esempi».
Una delle questioni più controverse, e che ha rallentato l?esame in Parlamento del ddl, è stata quella fiscale. Al Senato, per accogliere i rilievi della commissione Bilancio, la maggioranza ha presentato un emendamento che ha eliminato l?obbligo per il governo di prevedere dei benefici fiscali. E anche se il senatore Bobbio è convinto che il «governo non possa fare a meno di prevedere un regime di favore», la mancanza di un esplicito richiamo non desta particolare preoccupazione.
«Anche la legge 381, fatta eccezione per le cooperative sociali di tipo B, non prevede benefici fiscali intervenuti ?accidentalmente? solo a seguito dell?approvazione di altre norme», ricorda Giacomo Libardi, consigliere delegato di Cgm. «Uno degli aspetti più interessanti di questa legge è che permetterà di far chiarezza, distinguendo in maniera netta le organizzazioni di volontariato da quelle che invece svolgono un?attività imprenditoriale». Mettendo un freno all?anomalia tutta italiana di avere «associazioni che fanno impresa e imprese che pur definendosi tali non lo sono affatto», puntualizza Borzaga.
Rispetto alla versione iniziale, il testo approvato ha subito diverse modifiche che hanno accolto in larga misura le proposte del Forum del terzo settore. Tuttavia rimangono delle imperfezioni: «Una delle più gravi», riprende Borzaga, «è l?impossibilità di distribuire utili. Si è voluto replicare in maniera assolutamente acritica il modello statunitense, ponendo un vincolo inutile che è tipico dei soggetti redistributivi e non imprenditoriali».
«Quel che conta», aggiunge, «non è che l?impresa non distribuisca utili ma che non possa massimizzarli. L?impossibilità di distribuire utili pone un grosso limite alla capacità dell?impresa di raccogliere capitale di rischio necessario per sostenere piani di sviluppo».
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