Cultura

Imprenditori cristiani: con l’etica si guadagna di pi

Appello da Buenos Aires su globalizzazione e sfruttamento. Camdessus: "Occidente egoista e ignorante".

di Redazione

I salari bassi non portano le imprese al successo, né i Paesi alla conquista dei mercati. Solo l’equità sociale, la lotta allo sfruttamento, i limiti alla globalizzazione selvaggia, il commercio onesto, la responsabilità sociale degli imprenditori sono le chiavi possibili nel prossimo futuro, sia nei Paesi avanzati sia in quelli che lottano per emergere. Non sono parole d’ordine dell’ennesimo raduno no global, ma pacate riflessioni in giacca e cravatta di un selezionato gruppo di imprenditori e manager che si sono riuniti in questi giorni a Buenos Aires, epicentro della più drammatica crisi economica oggi esistente sul pianeta. Sono i 400 delegati al 21esimo congresso dell’Uniapac, associazione mondiale che riunisce gli imprenditori di matrice cristiana. In Italia il club è conosciuto come Ucid, Unione cristiana imprenditori dirigenti, ed è presieduto da Francesco Merloni. L’Argentina, come sede del congresso, era stata scelta prima del terremoto finanziario. E oggi appare più che appropriata. L’ex numero uno del Fondo monetario Michel Camdessus spiega che questa crisi suscita «pena, dolore e rabbia» per chi aveva visto l’Argentina, qualche anno fa, come un modello per il mondo. Duro il francese sul protezionismo agricolo di Europa e Usa contro l’America Latina: nel Primo Mondo, su questi temi, c’è «egoismo e ignoranza». Angelo Ferro, economista e imprenditore veneto, ha sviluppato uno dei temi più apprezzati dal convegno, il problema del «dumping sociale». Si tratta dell’applicazione di standard di lavoro bassissimi, in alcuni Paesi, a fini di competitività. La condanna di Ferro è totale. «Occorre convincere tutti che i diritti del lavoro e dell’ambiente devono diventare un patrimonio dell’umanità. E’ un compito arduo, perché imporre principi dall’alto al mondo delle imprese è quasi impossibile». Ferro si è riferito alle parole del Papa, che ha parlato di «globalizzare la solidarietà» e proposto che gli imprenditori di matrice cristiana passino ad avere un ruolo attivo sul tema. «L’Uniapac diventi promotrice di un accordo tra imprese. Si crei poi una autorità di supervisione, con la partecipazione di esponenti dei Paesi in via di sviluppo». Temi come il controllo internazionale sulle storture della globalizzazione e sull’apertura democratica di istituzioni tradizionalmente in mano ai Paesi ricchi sono molto vicini alle richieste dell’ala moderata del movimento no global. Alcuni imprenditori e religiosi a Buenos Aires lo ammettono. In un sondaggio, la metà dei partecipanti sostiene che il principale svantaggio della globalizzazione è l’aumento di disparità tra Paesi ricchi e poveri e che a questo effetto occorre porre rimedio al più presto. E’ vero però che esiste anche un punto di vista «produttivo» in queste richieste. Interessante, ad esempio, il contributo di Ignacio Gonzalez, numero uno di Price Waterhouse Argentina, che dimostra come un’impresa etica e responsabile sia infinitamente più produttiva e fa più bene alla società nel complesso rispetto all’azione filantropica fine a se stessa. Robert Levering, responsabile di un istituto che monitorizza in tutto il mondo le aziende dove si lavora meglio, arriva cifre alla mano ad una conclusione simile. Le imprese più civili e democratiche, dove i rapporti umani sono migliori, guadagnano di più e vanno meglio in Borsa di quelle dove si vive un clima ostile e il rapporto padrone-dipendente è più tradizionalista. E naturalmente il tema del salario giusto. Non è vero che i Paesi dove si paga in nero o si evade massicciamente il fisco sono più produttivi, dimostra uno studio McKinsey. E’ esattamente il contrario. L’imprenditoria «sporca» porta solo a inefficienze e sottosviluppo. (corrispondenza de “Il Corriere della sera” di oggi)


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