In questi giorni è venuto in Italia don José de Paola, detto padre Pepe. È parroco a Villa 21, una delle favelas più malfamate di Buenos Aires. Alcuni mesi fa i boss della droga l’hanno minacciato di morte. Da allora è costretto a muoversi sotto scorta. «Un po’ di paura, certo, ma la cosa importante è stata la reazione della gente», ci dice. Padre Pepe, 48 anni, capelli lunghi, lontane origini calabresi, è un prete “impegnato”. Ma i preti impegnati sono sempre un po’ arrabbiati, musoni. Padre Pepe no. Sorride. Colpisce la levità del suo parlare e del suo fare. I boss lo vogliono morto perché sottrae giovani al mercato del paco, la nuova droga che impazza nei barrios, una pasta fatta con gli scarti della cocaina. In Italia è venuto a raccogliere fondi per un nuovo centro di recupero per ragazzi tossicodipendenti. L’esperienza di Padre Pepe e degli altri 20 preti delle “villas miserias” di Buenos Aires è interessante, perché supera la vecchia dialettica sulla teologia della liberazione. Sono preti veri: curano la fede popolare, senza smanie teologico-moderniste. Ma questo nulla toglie, anzi è la vera base, per loro, di una condivisione dei bisogni della gente. Ed ecco il doposcuola, l’ambulatorio, la lotta per condizioni di vita più dignitose. Sono i prediletti del cardinale di Buenos Aires, Bergoglio. A destra li vedono con sospetto come mezzi comunisti, a sinistra gli rimproverano di voler fare la rivoluzione con le processioni e gli ex voto alla Vergine. «Desideriamo solo vivere il Vangelo con i poveri», semplifica padre Pepe.
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