Welfare

Impatto imminente

di Flaviano Zandonai

È una specie di flusso quello andato in scena a Milano venerdì scorso in occasione del seminario organizzato da Vita e dall’Università Bocconi. Un continuum lungo il quale si sono collocate, in modo più o meno agevole e complementare, le varie posizioni sull’impresa sociale. Con un po’ più di conversazione in un tempo un po’ più dilatato ne sarebbe uscita una performance che sarebbe piaciuta ai neodadaisti di Fluxus.

Forse è inutile cercare la fatidica “sottile linea rossa” in un evento come questo perché a prevalere sono state le esigenze di posizionamento e di rappresentazione del fenomeno. D’altro canto è chiaro che si sta per avviare un nuovo ciclo delle politiche nazionali per l’impresa sociale. Sembra di vivere una stagione effimera come questi giorni di primavera anticipata, dopo il lungo inverno segnato da una normativa lasciata colpevolmente priva di un’agenda di policy. Per rivivere qualcosa di simile bisogna tornare almeno trent’anni indietro, quando dalla ibridazione tra terzo settore e movimento cooperativo nacque il primo modello d’impresa sociale in Italia (e in Europa): la cooperazione sociale.
Comunque l’attimo fuggente, il carpe diem dell’impresa sociale del 2014 c’è e si chiama impatto. È l’elemento emerso in modo più distinto da molti interventi (anche solo contando le frequenze d’uso del termine). È il perno intorno al quale – piaccia o meno – si giocherà la partita del policy making, ben oltre le questioni strettamente normative che lasciano – letteralmente – il tempo che trovano. Su come definire e misurare l’impatto si definirà la mappa degli stakeholder dell’impresa sociale con in prima linea quella parte del mondo della finanza che fa proprio dell’impatto sociale la propria missione.
Il tema è tosto e la concorrenza molta. L’impresa sociale, paradossalmente, è chiamata a recuperare, lavorando lungo una doppia direttrice. La prima riguarda la condensazione di metriche d’impatto oggi polverizzate in standard comuni, partendo da pratiche diffuse che riguardano – ad esempio – il bilancio sociale. I lavori del sottogruppo del GECES (gli esperti europei di impresa sociale) che si è concentrato proprio sulle misure di “social impact” può fare da punto di riferimento. La seconda direttrice riguarda il senso di misurare l’impatto. Semplificando un po’, prima di addentrarsi negli algoritmi, potrebbe essere utile rispondere alle fatidiche 5w giornalistiche: who (chi), what (che cosa), when (quando), were (dove), why (perché).

Il chi riguarda la “terza parte” chiamata a certificare le metriche d’impatto, mediando le posizioni dei diversi attori in campo (beneficiari, finanziatori, produttori di servizi).
Il cosa riguarda, prima che i singoli indicatori, il livello della misurazione soprattutto quando si intendono valutare gli scostamenti non di singoli soggetti o gruppi, ma di contesti più ampi e delle loro regolazioni. Prospettive di lungo periodo e mutamenti sistemici rispetto ai quali le variabili in gioco sono molte e di non semplice combinazione.
Il quando riguarda invece la collocazione temporale della misurazione. Facile dire ex post, a cose fatte. In realtà esiste il problema dell’ex ante ovvero delle valutazioni d’impatto che riguardano, ad esempio, politiche sperimentali.
Il dove chiama in causa il tema della trasferibilità e della scalabilità di iniziative che soprattutto sul fronte dell’innovazione sociale richiamano fortemente le determinanti di contesto.
– Infine, ma decisamente non per ultimo, perché misurare l’impatto? A chi giova? A prima vista la risposta può apparire scontata ma non lo è, anzi. Oggi è soprattutto chi finanzia a chiedere riscontri, ma c’è un tema di efficacia che coinvolge soprattutto chi beneficia dei servizi e chi gestisce le attività. E non è detto che le misure, le loro interpretazioni e le modalità di comunicazione siano convergenti.

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